Ne hanno parlato molti giornali, del boom dei bambini immigrati (varianti: alunni immigrati, baby immigrati) che si sono iscritti quest’anno alle scuole italiane. Scuole elementari, soprattutto: a cominciare dalla “Carlo Pisacane” di Torpignattara, a Roma. Dove ormai l’italiano è lingua madre minoritaria. E dove l’educazione multiculturale (espressione un po’ generica ma pur sempre preferibile, in questo contesto, a integrazione) non sarà una passeggiata ma non è neppure vista come un problema: semmai come una sfida pedagogica, ancor prima che sociale. Ma anche dove all’inizio di quest’anno scolastico – tanto per non creare illusioni e aspettative che stonerebbero con le politiche correnti – l’assessore del Comune di Roma Laura Marsilio si è affrettata ad affermare che i “bambini figli di immigrati, anche se nati in Italia”, non possono non essere considerati “stranieri”, perché straniere sono le culture di cui sarebbero portatori. Sono stati sempre i giornali a raccontarcelo: provocando la nostra reazione. Facendoci, ovviamente, discutere.

Eppure, a ben guardare, avremmo dovuto discutere a prescindere dalle affermazioni dell’assessore. Ci saremmo dovuti interrogare già intorno a un’altra questione. Che sembre marginale, formale, ma è invece di sostanza. La presenza – negli articoli sull’argomento – di bambini immigrati (o alunni immigrati, o baby immigrati). Che sarà anche un’espressione utile per attirare la nostra attenzione. Ma è scorretta (e quindi, foriera di scorretta informazione). Perché tre quarti di quei bambini, a leggere le statistiche (ad esempio, quelle fornite dalla Fondazione Agnelli di Torino) sono nati in Italia. Ovvero, immigrati non lo sono e non lo sono mai stati, se si considera l’immigrazione come un processo, una fase, un’esperienza transitoria e non come uno stigma sociale, per giunta ereditario.

Certo, alcuni giornalisti – e guardacaso, anche l’assessore in questione – hanno scritto o parlato di “bambini figli di immigrati”: il ché è senz’altro più veritiero. Ma non risolve la questione, e non solo da un punto di vista nominale. Perché definisce quei bambini, quei ragazzi in base allo status, alla provenienza, dei loro genitori. Come se dicessimo: in quella scuola ci sono 7 figli di avvocati, 3 di medici, 4 di artigiani. E pretendessimo che questo ci dicesse qualcosa di categorico, di ontologico su quegli alunni.

Che fare, allora? Quali espressioni usare? Sarebbe meglio dire “bambini di origine marocchina” (ma origine di che tipo? Culturale, nazionale, o – ancor più discutibilmente – etnica?), o di genitori rumeni (e se si trattasse di coppie miste?), o di nazionalità ucraina?. Oppure “immigrati di seconda generazione”? O, per guardare al presente e al futuro (e non rivolti necessariamente al passato delle loro famiglie) “italiani di seconda generazione”? Ma chi appartiene alla “seconda generazione”: chi ha oggi 8 anni, o 15, o 25? Alcuni suggeriscono “nuovi italiani”. Ma anche qui la soluzione non sembra accontentare nessuno. A parte il fatto che occorrerebbe spiegare prima di tutto agli italiani che cosa significa essere italiani, non è detto che i cosiddetti “nuovi italiani” si sentano davvero italiani, o soltanto italiani, anche se nati in Italia. Spesso, anzi, stanno – vivono – tra due (o più) lingue e culture: cercando di prendere il meglio da entrambe. O sentendole – anche drammaticamente – confliggere.

E allora, che fare? Il problema è aperto. E i commenti – mi auguro – non mancheranno. Anche perché non si tratta di un cavillo lessicografico. Perché interrogarsi sulla denominazione, in questo caso, significa interrogarsi sul concetto di cittadinanza stessa (da concedere secondo ius sanguinis? O secondo lo ius solis? Attraverso altri criteri? Quando si cessa di essere considerati “immigrati”? O peggio, stranieri, estranei?). E sull’idea che abbiamo – se l’abbiamo – di società multi (o pluri) culturale. Formata da cittadini ‘adulti’. E non soltanto da assessori retrogradi e baby immigrati.

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