L’aggressione al presidente del consiglio è carica di effetti. Tra questi, quello di aver fatto cadere le (ultime) inibizioni linguistiche e stilistiche della maggioranza di governo e dei suoi rappresentanti. Grazie all’atmosfera di tensione prodotta dal lancio della miniatura, entriamo con maggiore chiarezza nel lessico e nella retorica berlusconiane. A stupire non è tanto la violenza nella scelta delle parole per commentare, spiegare (e condannare) l’aggressione: “mandanti morali”, “terroristi mediatici”, “network dell’odio”, “cattivi maestri”. I campi semantici da cui espressioni del genere provengono, infatti, li intuiscono tutti: da un lato, quello generato dagli anni di piombo, lontano nel tempo ma prontamente e rozzamente rispolverato per l’occasione; dall’altro, quello del terrorismo islamico (cavalcato, in Italia, dalla Lega e dalla destra più estrema in modo esemplare).

I discorsi in Parlamento di questi giorni ne hanno semplicemente montato gli aspetti peggiori. Niente di nuovo: come dimostra la lista di citazioni compilata sul Fatto da Marco Travaglio e Peter Gomez, la maggioranza si esercita da tempo, e con efficacia, su questo terreno. Più interessante invece quello che è accaduto al San Raffaele, dove il premier è stato ricoverato subito dopo l’aggressione. Da lì sono arrivati due messaggi straordinari per il carico di significati che contengono e per la forma in cui sono stati espressi. Il primo lo ha riportato, lunedì scorso, il Corriere della sera. È di Don Verzè, amico del premier e fondatore dell’ospedale; nella sua intervista al Corriere, il sacerdote ha dichiarato: “C’è un clima d’odio. È arrivato il tempo di cambiare la Costituzione”. L’ho letta e riletta, ma il nesso tra la prima e la seconda frase del periodo proprio mi sfugge. Il modo in cui il “clima d’odio” sia in un rapporto di causalità con la Costituzione è, infatti, piuttosto misterioso. A essere rigorosi, dovremmo dedurne il seguente argomento: se, come tutti spiegano, il clima d’odio ha armato la mano del Tartaglia e causato il ferimento di Berlusconi; e se la Costituzione (così com’è oggi) ha prodotto un clima d’odio, allora la Costituzione ha armato la mano dell’aggressore.

La conclusione, come si vede, è assai più grave e paradossale di quella a cui è giunto l’on. Cicchitto nel suo intervento alla Camera. La mossa di don Verzé non può dirsi completa fino al momento in cui sulla home del sito del Pdl non compare la prima dichiarazione di Berlusconi da domenica sera. Solo allora l’intervista del sacerdote acquista il suo senso pieno. Le poche righe di Berlusconi si chiudono così: “L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio”. Chi ha commentato quest’uscita ne ha apprezzato la sobrietà, considerandola una risposta in linea con gli appelli del Capo dello Stato. Questo giudizio è, davvero, troppo ingenuo. Provate a mettere le due dichiarazioni una di fianco all’altra. Non sentite qualcosa di stonato o di curioso? Sembra che ci sia stato un errore d’attribuzione, uno scambio di culla. Come se la dichiarazione che ci saremmo aspettati dal presidente del consiglio fosse stata pronunciata dal prelato; e quella attesa dalla bocca del religioso fosse fuoriuscita da quella del politico. Perché invertire le parti e i generi discorsivi? Cosa ci fanno evangelici auspici sul sito dell’uomo politico più importante del Paese, e richieste di riforma costituzionale nelle parole di un sacerdote? Si può rispondere: i) riabilitano al dibattito pubblico il premier dopo il discorso di Bonn e il comizio di Milano (come criticare la fede nell’amore?); ii) mantengono la posizione aggressiva sul terreno delle riforme costituzionali, e iii) facendola assumere a don Verzé, la caricano di un valore derivante dalla funzione e dal ruolo sociale del prete (giusto e pio per definizione), del tutto non pertinenti con il contenuto di quella posizione.

Dovevamo prevederlo. Il ricorso a registri, lessici e generi disparati, infatti, è tipico della retorica berlusconiana. Si è cominciato con le metafore calcistiche per legittimare un’occupazione militare delle istituzioni. Si è continuato con il linguaggio dell’azienda per colmare la scarsa competenza in campo di politica economica. Si è passati alle storielle a sfondo sessuale per nascondere i fallimenti in politica estera e la recrudescenza della violenza di genere. Infine, con perfetto gioco delle parti, ci si è appropriati della parola religiosa. L’effetto è sempre uno: allontanare da Berlusconi il sospetto che sia un uomo politico, e pure potente. Il più potente di tutti, e, per questo, quello con le maggiori responsabilità. I cittadini, infatti, non devono saperlo: meglio un Berlusconi imprenditore, calciatore, dongiovanni e, da domenica, (quasi) santo.

di Alberto Gangemi  da Il Fatto Quotidiano del 20 dicembre 2009
 

Articolo Precedente

D’Alema, l’inciucio e l’opposizione a metà

next
Articolo Successivo

Ingroia e Spataro: loro sì e io no

next