Si può annullare il rischio sismico del patrimonio monumentale italiano? La risposta è no: l’invulnerabilità del tessuto storico è un’illusione ottica moderna. Ma la risposta è un “no” anche quando ci chiediamo se si è fatto tutto ciò che si poteva e si doveva fare per ridurlo al minimo, quel rischio. Nel 1983, il direttore dell’Istituto Centrale del Restauro Giovanni Urbani dedicò una serie di volumi e una mostra alla “Protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico”. Si trattava di un programma concretissimo in cui erano illustrati i singoli passi da percorrere per evitare che i futuri terremoti provocassero danni come quelli, tragici, dell’Emilia di oggi. La stima del 1983 parlava di una spesa globale di 2.700 miliardi di lire: meno di 5 miliardi di euro di oggi. Una cifra non piccola, certo: ma la costruzione delle “new town” de L’Aquila hanno speso quasi un miliardo di euro.

Il Mibac di oggi mette a bilancio per il rischio sismico la miseria di 4 milioni e mezzo di euro (forniti peraltro da Arcus), e li spende tutti per la verifica dell’applicazione delle attuali linee guida a qualche decina di musei. Se si pensa che, sotto il ministero Bondi, Tremonti sottrasse al bilancio Mibac la bellezza di 1 miliardo e 300 milioni di euro, si avrà un’idea dell’irrilevanza dell’attuale politica di tutela preventiva.

Il risultato paradossale è che oggi il patrimonio monumentale italiano è più esposto ai terremoti di quanto lo fosse due secoli fa. Oggi, infatti, la manutenzione ordinaria del patrimonio diffuso è totalmente trascurata, in nome degli “eventi” e dei restauri straordinari e mediatici concentrati su poche opere simbolo . Senza contare le frequenti inserzioni in cemento armato che minano le architetture storiche. Se non si riesce a far capire all’amministrazione comunale di Padova che la suprema Cappella degli Scrovegni di Giotto rischia l’inondazione a causa dei dissennati progetti di cementificazione limitrofa, figuriamoci se è possibile parlare di conservazione programmata su scala nazionale.

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