Con questo articolo, il regista Marco Risi inizia la sua collaborazione con “Il Fatto quotidiano”. Lo fa parlando di uno dei grandi enigmi irrisolti del continente sudamericano, Diego Armando Maradona. Su Dieguito e sul suo sprofondo apparentemente senza fondo, Risi aveva già indagato, nel suo “La mano de dios”. Oggi ritorna sul luogo del delitto, senza volontà omicide.

A
Buenos Aires, tra le pieghe nascoste di una città multiforme, esiste una chiesa speciale. Esteriormente, somiglia a tutte le altre. Ingresso, navate, altare. Dentro però, si professa il culto preferito di una nazione. Quello maradoniano. La gente si riunisce. Entra in silenzio per dare poi voce a una sottile linea di pensiero che attraversa l’anima inquieta di un luogo unico al mondo. Le invocazioni a Dio, in quell’avamposto quasi eretico, sono rivolte a Diego Maradona. L’ho visto con i miei occhi, ascoltato con le mie orecchie. “Ave Diego che sei tra noi”.
Se non si è almeno una volta nell’esistenza trasvolato l’Oceano per giungere nella culla del maradonismo, riesce difficile crederlo. Ma Baires è un caleidoscopio di volti, in cui dietro la patina, l’ologramma di Maradona non abbandona mai gli abitanti. Nei bar, davanti alle edicole, nelle strade larghe come highway o nei vicoli senza luce, Diego c’è.

Mantra e dogma, speranza e fideismo. La venerazione per Maradona, tocca gli spigoli e sfiora gli angoli. E’ un vento che rincorre se stesso e si autorigenera quotidianamente. In alto il re, in basso i sudditi. E’ così da quasi trent’anni e l’attitudine non è mutata neanche nei frangenti più complicati dalla frastagliata biografia del Pibe.

Ho conosciuto Diego Maradona in Italia. Era l’estate del 2005. Da tempo cercavo inutilmente di fissare un incontro per presentare all’oggetto della mia investigazione, il progetto di un film su di lui. Io e Gianni Minà raggiungemmo Cesenatico in un caldissimo giorno di luglio. Nel campus organizzato dal suo ex compagno di squadra e sodale Salvatore Bagni, l’atmosfera era quella della colonia estiva. Bambini ovunque, palloni, un confuso sciamare di dialetti e dietro allo spettacolo, lui. Sdraiato su una sedia, silente, un ombrellone a coprirne il corpo che dopo l’espansione, stava riappropiandosi di se stesso.

Un quadro triste. Immobile. Ad un tratto Diego si alzò, si era stancato della finzione, del ruolo in cui quella situazione lo ingabbiava senza possibilità di fuga. In un istante, cambiò il cielo. Vidi gli occhi prendere vita, il sorriso incresparsi, il corpo liberarsi nell’alveo più naturale per lui. Quello in cui era nato ed era riuscito ad esprimersi meglio.

La felicità non costa niente e per lui, prendeva forma solo sul prato verde. Poi parlammo. Ne ricavai l’impressione di un uomo di un’idiscussa intelligenza animale. Un monumento alla malinconia e alla fragilità, come solo sanno essere i geni, ma senza reali punti di rottura. Diego ha sempre camminato da solo. Nel sole e nella tempesta, con l’approvazione o il discredito. La solitudine lo abbraccia da quando è nato, anche se ammetterlo gli costerebbe troppo.

E’ stato l’unico calciatore che io ricordi, a poter vincere una partita da solo. Neanche Pelè sarebbe riuscito nell’impresa, ma Diego era diverso. Sentiva la missione, avvertiva l’investitura popolare. Potrebbe utilizzare la sconfinata mitologia sul suo conto, nella maniera più conveniente. Entrare in politica, come sentivo preconizzare in certi ristoranti argentini, in cui i notabili ragionavano sui possibili approdi di una stella appassita. Oggi che i proci e gli pseudoamici di un tempo hanno dirottato l’attenzione verso lidi altri, Diego lo deciderà finalmente in assoluta autonomia. Ieri notte Maradona si è giocato molto. Nell’ennesima roulette russa della sua vita, le pallottole gli sono passate molto vicino. Quella con l’Uruguay non è soltanto la partita che decide se l’Argentina vedrà da vicino le contraddizioni sudafricane ma rappresenta soprattutto la sfida con il passato prossimo e l’immediato futuro. I miei amici argentini non temono.

Non si dubita di una divinità. Per empatìa e irriducibile desiderio di schierarmi con i più deboli, accarezzo anch’io qualche certezza. Rammento lo scetticismo nei confronti di Bearzot, Zoff e Bruno Conti. Erano i giorni di Pontevedra, 1982. Al termine della notte, conquistammo il mondiale.

Non escludo che a Maradona, una volta superate le colonne di Montevideo, possa accadere lo stesso.
Nella difficoltà sa risorgere come nessuno, la complicazione è il mare in cui preferisce nuotare e se la Celeste, a un’ora in cui i bambini dormono, non si sarà messa tra lui e il sogno, Maradona sublimerà anche quest’aspettativa.

Maradona fluttua in una dimensione tutta sua. Da tempo non può più rispondere ai canoni della normalità. La trasposizione dei piani si verificò nell’epoca buia. Nei momenti più cupi, quelli in cui supponeva di dominare il reale, assumendo dieci grammi di cocaina al dì, Diego iniziò a spiazzare la verità.

Divide anche adesso che la droga sembra lontana e quella sostanza che pare sollevarti e poi inevitabilmente distrugge la psiche, pare un veleno preistorico.

Anche l’Argentina è spaccata come una mela ma Diego, di fronte a questa scissione, ha mantenuto il coraggio della contraddizione e l’inesausta fiamma che gli permette di buttarsi nella mischia come quand’era giovane, con sette fratelli, nell’inferno di Villa Fiorito.

Per meglio comprendere nessi e circostanze, bisogna sentire l’odore delle cose. Calarsi nei meandri sconsigliati e nelle tante lande dimenticate. Villa Fiorito appartiene a quella schiera. Girammo nella casa di uno degli amici di infanzia di Maradona, tra pistole sul tavolo e criminali comuni. Respirammo l’aria che Diego aveva avuto come amica e compagna fin dall’infanzia. Un’aria che ti costringe all’attenzione e alla scelta, alla decisione immediata e all’intuito. Nessuno come lui ha spinto le masse all’identificazione. Non solo per una smania di somigliare a un eroe maledetto ma perchè, chi per gettarsi nella battaglia ha fatto a pezzi la diplomazia, dimostra ogni giorno che la convenienza personale non è la sola ragione a cui immolarsi. Esiste un’altra via, un possibilità differente di essere, un certo modo di non sembrare.

In mente, dopo tanti mesi piegato su una sceneggiatura, in cui come nelle scatole cinesi, ad ogni porta aperta corrispondeva una barriera omologa, mi sono rimaste le immagini. Fotografie indelebili. Mentre la discesa non conosceva freno, Diego emigrò a Cuba.

Nell’avventura all’ombra di Fidel Castro lo seguì un factotum italiano che in patria, a migliaia di chilometri dall’isola, possedeva un paio di ristoranti.

Il suo sosia. Grasso, perduto, devoto. Era il suo doppio, l’alterego che in quel viaggio disperato e finale, Diego aveva voluto al proprio fianco.

Maradona impugnava la mazza da golf fino a tarda sera, quando sull’Avana, le stelle avevano già da un pezzo occupato il cielo senza condizioni. E in quel contesto da meteora decaduta, Diego aveva individuato in quello sport altero e antitetico alle sue origini, la boa cui aggrapparsi per stare lontano dalla sostanza che lo aveva quasi ucciso. Accanto alle buche, a tenere la torcia al sovrano in disgrazia, in quell’imbrunire gravido di simbolismi, c’era il suo amico.
Maradona mi ha sempre fatto venire in mente Charlie Parker. Se hai suonato quella nota, raggiunto le vette, sfiorato il paradiso, ripetersi diventa un dovere. Sfiorare la terra può essere la pena più dolorosa da scontare. Ancor di più in un paese in cui gli abitanti parlano spagnolo, vestono all’inglese ma vorrebbero essere francesi e hanno visto in Diego l’entità sovrumana capace di far gol in undici tocchi.
Fu un lampo, l’isteria collettiva, il prodigio che si trasforma in semplicità. Con l’Inghilterra, subito dopo aver punito con il pugno le malefatte inglesi alle Falkland-Malvinas, Diego aveva pittato un’opera d’arte.

La rete perfetta, realizzata come Nureyev, ballando tra gli avversari. Il radiocronista che raccontò in tutte le case argentine, da Posadas a Ushuaia, quell’epopea, era uruguaiano. Lo scovammo dopo una perigliosa ricerca.

Ascoltammo la cronaca dell’epoca, parlammo con lui, mettemmo ne “La mano de Dios”, quella voce ritmata “ta-ta-ta-ta” che sapeva dove arrivare. Lui ci confessò che a metà dell’azione di Maradona, ebbe l’intuizione decisiva. Sapeva che nessuno lo avrebbe fermato. Che al di sopra di tutto, con tipica enfasi argentina, qualcuno aveva già deciso. In quella profezia avverata, c’era molto del segreto di Diego.
Anche se il campo si è ristretto e inseguire la lucentezza, ha lo stolido suono delle rincorse improbabili, io e quel cantore moderno la vedevamo nello stesso modo.
Tifosi, non giudici. Con la birra nell’angolo e la televisione accesa. A tutto volume.

di Marco Risi da Il Fatto Quotidiano n°20 del 15 ottobre 2009

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