Dopo le roventi polemiche del passato, un nuovo studio scientifico sulla contaminazione da pesticidi nel terreno e nell’aria, causata dalla coltivazione intensiva delle mele, arriva come una bomba a terremotare l‘Alto Adige e in particolare la Val Venosta, area d’elezione della Provincia autonoma dove si produce quasi la metà del raccolto italiano. A differenza di quanto accaduto nei mesi scorsi, quando una analoga ricerca tedesca finì letteralmente sul banco degli imputati in un processo per diffamazione, questa volta l’analisi realizzata da un pool di ricercatori dell’Istituto di scienze ambientali dell’Università tedesca di Kaiserslautern-Landau è stata pubblicata addirittura dalla prestigiosa rivista internazionale Nature. I risultati sono pesanti: dal campionamento condotto su 53 siti lungo 11 transetti altitudinali nella Val Venosta, la più grande area di coltivazione delle mele d’Europa, alla ricerca di 97 pesticidi di uso corrente nel suolo e nella vegetazione, sono stati “rilevati un totale di 27 pesticidi (10 insetticidi, 11 fungicidi e 6 erbicidi), provenienti principalmente da meleti. Il numero e le concentrazioni dei residui diminuivano con l’altitudine e la distanza dai frutteti, ma venivano rilevati anche nei siti più alti”, scrivono gli autori, sino nel Parco nazionale dello Stelvio.

Mentre il monitoraggio dell’acqua è stato stabilito su scala europea dalla Direttiva quadro sulle acque, questa è una delle prime ricerche che effettuano misurazioni dei pesticidi nel terreno. Secondo l’indagine, “la mappatura indica che le miscele di pesticidi possono essere presenti ovunque, dal fondovalle alle vette delle montagne. Questo studio dimostra una diffusa contaminazione da pesticidi degli ambienti alpini. Poiché sono state rilevate miscele di residui in remoti ecosistemi alpini e aree protette, chiediamo una riduzione dell’uso di pesticidi per prevenire ulteriore contaminazione e perdita di biodiversità”. In particolare, “i prati vallivi vicino ai meleti sono stati contaminati con un massimo di 13 diversi pesticidi di uso comune, principalmente insetticidi e fungicidi. Inoltre, residui di pesticidi di uso comune sono stati rilevati in tutti i siti di campionamento, anche nei prati alpini remoti a 2.318 metri di altitudine“.

“Si ipotizzava il trasporto di pesticidi ad altitudini più elevate e l’esposizione di insetti nel suolo e nella vegetazione lungo i pendii montuosi, ma non erano stati valutati in precedenza”, scrivono i ricercatori tedeschi Carsten A. Brühl, Nina Engelhard, Nikita Bakanov, Jakob Wolfram, Koen Hertoge e Johann G. Zaller. Ecco perché “lo scopo” del loro studio “era di valutare l’entità della distribuzione e dell’esposizione ai pesticidi di uso comune in due matrici terrestri chiave per gli insetti: il suolo, dove ad esempio la maggior parte delle api solitarie (circa il 65% delle specie) scavano i loro nidi e la vegetazione, che è habitat e risorsa alimentare per insetti erbivori come cavallette (ortotteri) o bruchi di farfalle (lepidotteri)”.

I risultati sono stati peggiori delle attese, finendo per confermare anche le ipotesi su nuove vie di contaminazione: “Da uno studio sul campionamento dell’aria nel fondovalle della Val Venosta sono stati rilevati anche diversi pesticidi, tra cui il fluazinam, che sono stati trasportati a diversi chilometri dalla fonte di applicazione. Anche in questo studio il fluazinam è stato rilevato più frequentemente (98% di tutti i campioni) anche alle altitudini più elevate (2318 metri sul livello del mare) e nella remota Val Mazia”, scrivono gli autori. “In Val Venosta”, secondo la ricerca condotta lungo l’intero asse della valle di 80 chilometri, “la sovrapposizione di venti stagionali e diurni, di circolazioni montagna-valle e di condizioni meteorologiche su larga scala determina il trasporto aereo di pesticidi di uso comune in tutta la valle, con conseguente deposizione e contaminazione a livello paesaggistico lungo la valle e dal fondovalle alle cime delle montagne, con nessuna differenza evidente tra i versanti esposti a nord o a sud. Questo modello di contaminazione è particolarmente preoccupante considerando che abbiamo effettuato il campionamento all’inizio di maggio” del 2022, scrivono gli autori, “e che le applicazioni di pesticidi continuano fino alla fine di settembre. Inoltre, potrebbero esserci più pesticidi di uso comune in uso rispetto ai 97 selezionati da noi analizzati, il che potrebbe aumentare ulteriormente il numero dei loro residui e la complessità delle miscele”.

Di certo, purtroppo il problema non è localizzato solo nel paradiso alpino dell’Alto Adige: “Simili modelli di contaminazione che portano a paesaggi chimici sono previsti in altre regioni dove viene praticata l’agricoltura intensiva in ambienti sensibili come le valli montane”, come in Germania e in Austria, scrivono gli autori dello studio. Che concludono con una proposta: “Per comprendere meglio il destino e l’esposizione ai pesticidi, sono necessari programmi di monitoraggio terrestre a lungo termine e su larga scala che dovrebbero essere incorporati nell’attuale proposta di direttiva UE sul monitoraggio del suolo”.

La notizia non sarà sicuramente gradita ai circa 6mila piccoli coltivatori di mele dell’Alto Adige. Anche perché, oltre al colpo di immagine, la ricerca pubblicata da Nature impatta su una realtà economia e sociale dove la mela è regina. Secondo le previsioni del Consorzio delle Cooperative Ortofrutticole della Val Venosta, la stagione melicola 2023-24 appena partita potrebbe portare a una produzione totale (integrata e biologica) di 340mila tonnellate, il 10% in più dell’annata 2022-23. La stagione conclusa l’anno scorso è stata in generale ampiamente positiva per la raccolta delle mele in Alto Adige dal punto di vista quantitativo. Secondo Assomela, l’organismo di filiera che raggruppa tutte le principali realtà produttive nazionali del settore nel quale Alto Adige e Trentino sono predominante, a livello regionale l’Alto Adige nel 2023 si è portato a una raccolta di 1.005.617 tonnellate, in crescita del 16% rispetto al 2022, mentre il Trentino è rimasto pressoché stabile a 485.951 tonnellate.

La Val Venosta, con un terzo della produzione altoatesina, è il cuore di questo distretto, con importantissimi investimenti sul fronte della sostenibilità. Nel 2023 la raccolta di mele biologiche della valle si è chiusa a 48mila tonnellate, in crescita del 20% sul 2022. Ottima la qualità e buono anche l’andamento commerciale, segnalava l’Associazione delle Cooperative di produttori della valle, capaci di sostenere anche la maggior domanda dei mercati a nord delle Alpi, dove le produzioni 2023 erano state meno abbondanti della norma, e, soprattutto, un approvvigionamento in grado di andare di pari passo alla proposta di mele premium di produzione integrata con tutte le varietà in assortimento disponibili anche in biologico. “Dopo due anni un po’ complessi, l’ottimismo è giustificato dai risultati commerciali registrati in questi primi tre mesi, durante i quali è stato venduto il 35% in più di volumi rispetto all’anno scorso. Il mercato tira e ritira”, commentava poche settimane fa il product manager dell’Associazione Gerhard Eberhoefer. Dati confermati martedì 9 gennaio da Assomela che ha reso note le cifre su produzione, giacenze e vendite di mele italiane nella stagione commerciale 2023/2024. La produzione totale di mele nel 2023 si è assestata a 2.174.674 tonnellate, il 2,9% in più dell’anno prima, con la quota destinata al consumo fresco cresciuta di poco oltre 4% su base annua a 1.878.891 tonnellate.

Quello della mela è un business fondamentale per l’economia dell’Alto Adige, non solo per il valore economico (il giro d’affari per i produttori è stimato in oltre 700 milioni di euro, senza considerare la trasformazione industriale a valle in succhi e concentrati e l’alta percentuale di esportazioni) ma anche per l’impatto sociale sul territorio, vista la rete capillare delle 6mila piccole imprese agricole familiari che producono mele, riunite in cooperative e nel consorzio. Nel vicino Trentino, ad esempio, il 95% del volume della frutta nella Provincia autonoma, pari a circa 500 mila tonnellate, è dato dalle mele che si assestano su un giro d’affari di 350 milioni.

Lo studio pubblicato da Nature dimostra quindi la dimensione del problema della contaminazione e conferma la ricerca realizzata dall’Umweltinstitut di Monaco di Baviera nel 2017, costruita analizzando i libretti dei fitofarmaci usati nei meleti: all’epoca gli altri ricercatori tedeschi scrissero che veniva accertato l'”impiego di principi attivi estremamente pericolosi e l’esposizione multipla. Ogni meleto viene trattato in media 38 volte in un anno”. All’epoca la banca dati a disposizione dei ricercatori fu dovuta all’effetto boomerang della querela per diffamazione (finita con un’assoluzione) presentata dall’allora assessore all’agricoltura (e produttore agricolo) Arnold Schuler (Südtiroler Volkspartei) e dagli operatori del settore. All’epoca Schuler replicò che lo studio era stato “fatto per metterci in cattiva luce, il 90% degli insetticidi utilizzati è biologico”. Sarà. Ma la nuova ricerca delinea un quadro inquietante.

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