Tutta colpa di una “diversa valutazione delle condizioni cicliche dell’Italia”. Nella sua risposta alla lettera ricevuta venerdì scorso dalla Commissione europeache chiedeva chiarimenti sull’insufficiente riduzione del deficit prevista per il 2018, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan si appiglia ancora una volta ad aspetti tecnici relativi al calcolo del pil potenziale italiano. E ribadisce che, considerati da un lato le sempre crescenti spese per l’accoglienza ai migranti e dall’altro “il costante impegno per le riforme strutturali“, gli obiettivi messi nero su bianco nel Documento programmatico di bilancio sono “in linea con i requisiti del Patto di stabilità e crescita”. Un refrain identico a quello degli anni scorsi, nonostante la scorsa estate Matteo Renzi abbia sostenuto che Padoan aveva ottenuto la revisione dei metodi di calcolo contestati, la cosiddetta “matrice” in base alla quale si calcola la flessibilità concessa ai Paesi Ue. Un eterno ritorno che caratterizza anche la legge di Bilancio appena approdata in Senato.

Su poco più di 20 miliardi di uscite, la legge di Bilancio per il 2018 ne utilizza infatti ben 15,7 per evitare ancora una volta l’aumento automatico delle aliquote Iva e delle accise. Ma si tratta solo dell’ennesimo rinvio: ancora una volta le famigerate clausole di salvaguardia vengono disinnescate solo per l’anno prossimo, prevedendo però che scattino da quello successivo. Questo, peraltro, nonostante la legge di riforma del bilancio dello Stato, varata nel 2016, abbia vietato di tappare potenziali buchi nei conti con questo escamotage. Spetterà in ogni caso al prossimo governo trovare almeno 14 miliardi per evitare che a partire dall’1 gennaio 2019 l’aliquota Iva agevolata salga dal 10 all’11,5% per poi arrivare al 13% nel 2020 e che quella ordinaria del 22% passi al 24,2% e poi al 24,9%. Altri soldi andranno trovati per scongiurare un ritocco all’insù dell’accisa sulla benzina e sul gasolio che garantisca 350 milioni di euro di introiti aggiuntivi dal 2020.

Tornando alla risposta spedita al vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis e al commissario agli Affari economici Pierre Moscovici, il titolare del Tesoro di fatto si limita a tenere il punto. Sostenendo che se per Bruxelles lo “sforzo fiscale” messo in campo dall’Italia risulta inferiore dello 0,1% rispetto al risicato 0,3% promesso a giugno (contro lo 0,6% chiesto dalla Ue) è colpa dei diversi metodi di calcolo dell’output gap. Cioè la differenza tra il pil effettivamente prodotto da un Paese in un dato anno e quello potenziale, che potrebbe raggiungere al netto di crisi economica e circostanze eccezionali. Un aspetto tecnico che ha però ricadute dirette sulle correzioni dei conti chieste dalla Commissione all’Italia. Padoan contesta la metodologia di calcolo fin dal 2014, senza successo: Bruxelles, pur avendo concesso in via eccezionale a Roma amplissimi spazi di flessibilità, non ha mai aperto a modifiche dei criteri adottati per le sue valutazioni.

Così a via XX Settembre non resta che ribadire la richiesta. Invocando ancora una volta “condizioni cicliche difficili, anche se in miglioramento” e spiegando che l’output gap stimato da Roma è al -2,1% del prodotto potenziale nel 2017 e a -1,2% nel 2018, mentre la Commissione nelle previsioni di primavera indica rispettivamente -0,8% e 0 per cento. Segue rivendicazione della spesa per la gestione della frontiera meridionale dell’Ue e l’accoglienza dei migranti di cui l’Italia si fa carico: oltre 193mila a fine settembre 2017, annota Padoan, per una spesa pari allo 0,25% del pil. Gli arrivi sono calati, è vero, ma “le necessità di accoglienza persistono, soprattutto a causa dei flussi in uscita molto limitati per effetto della limitata cooperazione degli altri Stati membri”.

Infine non può mancare il richiamo all’impegno del governo nell’attuazione delle riforme strutturali annunciate nel Def, che includono “la prima legge annuale per il mercato e la competitività, l’introduzione del reddito di inclusione, le riforme nel campo della giustizia, quelle della pubblica amministrazione e della scuola”. I cui effetti, mette nero su bianco il ministro, “sono stimati intorno al 3% lungo un periodo di cinque anni”. E “una ulteriore spinta alla crescita verrà dagli investimenti pubblici”. La Commissione, che in questa fase non ha interesse a mettere i bastoni tra le ruote del governo Gentiloni, ha preso atto. Facendo sapere che “includerà le informazioni” nella valutazione della bozza di manovra prevista prima della fine di novembre.

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