La riforma delle province si è ridotta a commissariamento perenne mentre gli enti sprofondano tra debiti e competenze a cui non riescono a far fronte. E già si parla di cancellare tutto e riportare in vita le vecchie strutture. Il risanamento economico bocciato a ripetizione fino allo schiaffo della Corte dei conti che chiede di non approvare il rendiconto finanziario. Il sistema antincendio e di prevenzione rimasto solo nelle parole di una, l’ennesima, conferenza stampa show di oltre 12 mesi fa. La rete idrica sempre più colabrodo. I comuni sull’orlo del dissesto. Un lascito di macerie e rovine, molto meno affascinanti di quelle dei siti archeologici dell’Isola su cui, comunque, impietoso è il giudizio sullo stato di manutenzione e utilizzo.

Ecco la Sicilia dopo cinque anni di governo Crocetta. Macerie morali ed economiche, sociali e culturali. Ma davvero è il governatore l’unico colpevole? Davvero la sola fine di quest’esperienza di non-governo è antidoto sufficiente? Davvero l’intera classe dirigente siciliana, l’intero parlamento regionale, le forze politiche che questa esperienza hanno sostenuto possono dirsi innocenti e pensare di scaricare sulla stretta corte crocettiana ogni responsabilità?

Troppo facile. E anche troppo pericoloso. Perché nella rimozione delle responsabilità sta buona parte del problema Sicilia. Così come nelle sue classi dirigenti intrise di gattopardismo e capaci di surfare sulla prima, seconda e terza repubblica. Tanto da vedere nelle maggioranze che hanno gestito i governi degli ultimi 20 anni gli stessi nomi. Cuffaro, Lombardo, Crocetta hanno in comune moltissimi volti tra gli scranni di Sala d’Ercole. Capaci di votare tranquillamente i provvedimenti più devastanti e poi far finta di nulla, pronti a ricollocarsi a secondo del vento. Sempre in piedi, sempre in prima fila, sempre a gestire potere.

Alla vigilia delle regionali di novembre, questo tema sembra essere stato entusiasticamente rimosso. Crocetta è il responsabile unico. Sue le colpe e le responsabilità. E gli assessori indicati dai partiti e che alle varie correnti dei partiti facevano diretto riferimento?  E i vertici che con cadenza semestrale “rilanciavano l’azione del governo” erano semplici riunioni tra amici? Per tacere della pletora di consulenze, incarichi, posti di sottogoverno a cui hanno attinto a piene mani deputati e gruppi parlamentari. Gli stessi che oggi raccomandano discontinuità alludendo, però, alla continuità del proprio potere. Magari con un altro governatore battente altra bandiera.

Una storia già vista cento e cento volte in questa terra di Sicilia. Anche in questo sta l’assurdità e l’aridità di un dibattito politico che evita accuratamente il tema dei programmi e delle scelte e che si rifugia nel tranquillizzante tema dei “nomi”. Meglio se nuovi, meglio se capaci di coprire ogni magagna e nascondere le responsabilità diffuse. Una ricerca spasmodica che impedisca di parlare della ri-pubblicizzazione del servizio idrico, che non faccia parlare della gestione dei rifiuti in modo da consentire sempre possibili affari per i signori delle discariche, che distragga dai servizi di welfare senza fondi e non funzionanti. Tutte questioni che scompaiono dentro il formulario del tatticismo politico.

Dopotutto perché discutere del ruolo di confindustria nella gestione della cosa pubblica in Sicilia quando è molto più facile usare qualche formuletta magica come“centrosinistra” ? Domande scomode, troppo. Perché chiamerebbero in causa tutti i 90 deputati regionali in carica. Tutti gli assessori, di cui onestamente ho perso il conto, succedutisi in meno di 5 anni. Tutti i loro padrini politici. Un esercito che sta già “ricalcolando” come un navigatore gps il percorso migliore per arrivare nuovamente ad una comoda poltrona dentro il più antico parlamento attivo d’Europa.

Eppure, in questi cinque anni tra macerie e disastri qualcosa, forse più di qualcosa, in Sicilia si è mosso. Reti civiche e movimenti territoriali, esperienze amministrative avanzate, comitati contro le discariche e per la tutela del patrimonio ambientale. Spazi in cui si è ragionato collettivamente, avanzando proposte nel merito dei problemi. Comunità politiche in senso ampio che potrebbero contribuire a mettere in campo un programma alternativo e di reale discontinuità e che rischiano di restare ai margini di un discorso incentrato su collocazioni e assetti. Una risorsa preziosa che andrebbe coinvolta uscendo dal pantano. Sarebbe – questa sì- la discontinuità tanto decantata quanto poco praticata.

Intanto la Sicilia brucia e i mezzi non possono muoversi per mancanza di benzina e manutenzione.

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