Più di 200 incidenti a sfondo razzista e xenofobo dal giorno delle elezioni. Lo annuncia il “Southern Poverty Law Center”, che sul suo sito web racconta di questa ondata di atti – per lo più minacce, intimidazioni, aggressioni verbali – contro afroamericani, donne (soprattutto quelle che indossano il hijab), ispanici, gay. In buona parte di questi, ma non in tutti, ci sono stati diretti riferimenti alla campagna di Donald Trump. “Vi dico. Fermatevi” ha detto il presidente eletto nella sua prima intervista televisiva, a “Sixty Minutes” di CBS. Non sembra che tutti lo ascoltino.

Ecco solo alcuni degli incidenti che sono stati riferiti. Anaheim, California: ragazzi bianchi su un truck Ford hanno urlato niggers, rivolti a un’auto dove viaggiava una famiglia nera; poi sono fuggiti urlando ancora “questo è ora il Paese di Trump”. Alla Texas State University sono comparsi volantini che mostrano uomini in mimetica, armi in mano e una bandiera americana, e una scritta: “Ora che il nostro uomo Trump è stato eletto, bisogna organizzare squadre punitive di vigilantes e andare ad arrestare e torturare quei leader universitari pervertiti che parlando continuamente di questa spazzatura della diversità”. Molti studenti musulmani si raccontano su Twitter e su Facebook; dicono di essere spaventati e, soprattutto le ragazze, hanno paura di uscire. Una di queste, iscritta alla San Josè State University in California, ha denunciato di essere stata afferrata dal suo hijab in un tentativo di strangolamento.

In una scuola di Maple Grove, Minnesota, degli studenti hanno scritto nei bagni la parola “Trump”, accanto a “whites only”. In un’altra high school, la York County School of Technology in Pennsylvania, un gruppo di studenti ha portato in giro un cartello di Trump cantando “White Power”. In Connecticut, una ragazzina nera di 12 anni si è sentita dire da un compagno: “Ora che Trump è presidente, sparerò a te e a tutti i neri che trovo”.

“Build the Wall”, costruire il Muro, è il coro intonato in mensa da alcuni studenti della Royal Oak Middle school in Michigan. A Durham, North Carolina, sui muri di una strada del centro è apparsa la scritta: “Le vite dei neri non contano e neppure i vostri voti”. Su una panchina di un campo da baseball di Wellsville, New York, è stata dipinta una svastica, accanto allo slogan di Trump Make America Great Again.

Si tratta di episodi ancora isolati; ma si tratta di episodi comunque significativi. Sempre nell’intervista a CBS, prima di rivolgersi ai propri sostenitori e chiedere loro di mantenere la calma, Trump ha detto di “voler riunire il Paese… Nessuno ha niente da temere. Sono addolorato nel sentire di questi incidenti”. Il fatto è che la retorica particolarmente accesa usata da Trump in campagna elettorale contro gli ispanici, i musulmani, gli afroamericani – insieme all’attacco contro il politically correct, inteso da Trump come il velo di ipocrisia e l’impossibilità per gli americani meno ricchi e istruiti di esprimere liberamente le proprie opinioni – hanno creato un clima teso, saturo, esasperato. È una situazione che potrebbe rapidamente precipitare, in un Paese come gli Stati Uniti che è da sempre in equilibrio incerto tra forze, gruppi, interessi diversissimi.

A parte gli episodi di intimidazione, quello che preoccupa di più, a questo punto, è la nomina di Stephen K. Bannon a chief strategist di Trump alla Casa Bianca. Bannon, un ex ufficiale di Marina e dirigente di Goldman Sachs, è con il suo sito, Breitbart News, il rappresentante più in vista dell’alt-right, il movimento che vuole tutelare i “valori occidentali” e l’“identità bianca” dell’America. Oltre ad aver nutrito, per anni, il risentimento dei suoi lettori contro l’establishment repubblicano di Washington, Breitbart ha più volte negli ultimi anni provocato critiche e polemiche. Un articolo di esaltazione della bandiera confederata è apparso solo due settimane dopo che un suprematista bianco era entrato nella chiesa nera di Charleston ammazzando nove persone. In un altro pezzo apparso su Breitbart, l’Islam veniva definito una religione “tutt’uno con la cultura dello stupro”. Gabby Giffords, la deputata rimasta mutilata per sempre dopo un tentativo di omicidio da parte di un pazzo, è chiamata da Breitbart “lo scudo umano del movimento per il controllo delle armi”. Su Breitbart si sono sprecate le allusioni antisemite. L’opinionista conservatore Billy Kristol è chiamato “ebreo rinnegato”. La columnist del Washington Post, Anne Applebaum, si è sentita appellare: “Polacca. Ebrea. Elitista americana”.

Famosi anche alcuni dei titoli sbattuti sulla home page di Breitbart in questi anni. Cose come: “Preferiresti che tua figlia avesse il cancro o il femminismo?” Oppure: “Il controllo delle nascite rende le donne poco attraenti”. E ancora: “Non c’è pregiudizio contro l’assunzione di donne nell’high-tech, è solo che le donne fanno schifo nei colloqui”. La nomina dell’uomo che ha sovrinteso in questi anni a una pubblicazione di questo tipo ha dunque sollevato attacchi virulenti da parte dei democratici e un certo imbarazzo tra molti repubblicani. A nessuno sfugge del resto una cosa. Come chief strategist, Bannon non dipenderà da nessuno, ma soltanto, direttamente, da Trump. È un potere enorme, che nessuno nel suo ruolo ha mai avuto prima. Lo stesso potentissimo Karl Rove, chief strategist di George W. Bush, doveva rispondere al capo staff della Casa Bianca Andrew Card. Per Bannon è prevista invece una totale autonomia di giudizio e decisione. Si tratta di una situazione che dà legittimità a frange della destra radicale che sinora erano state tenute lontane dalle stanze del potere. È la situazione che David Duke, l’ex capo del Klu Klux Klan, ha in qualche modo previsto: “La candidatura di Trump ci dà opportunità senza precedenti”.

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