Damasco, Il Cairo, Mosca, Tel Aviv e Ankara. Dopo i risultati delle urne statunitensi, sono questi i governi impegnati nello scenario mediorientale che esultano per l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Meno interventismo e più isolazionismo americano significano più spazio di azione per i governi dal pugno più fermo. Se le simpatie per Vladimir Putin e la non totale avversione al presidente siriano Bashar al-Assad tranquillizzano il blocco governativo di Damasco, l’ammirazione del tycoon per i governanti più autoritari dà forza anche a Recep Tayyip Erdoğan, presidente turco, e Abd al-Fattah al-Sisi, omologo egiziano. A storcere la bocca sono, invece, Iran e palestinesi.

Trump e la scelta isolazionista, “ma non potrà applicarla totalmente”
La strategia dell’“America First” che il magnate ha promosso durante tutta la sua campagna elettorale lascerebbe spazio a ipotesi fino a pochi giorni fa impensabili: la più grande potenza militare che si ritira gradualmente dalle aree calde del mondo, modificando un paradigma interventista che va avanti dal dopoguerra. “Sicuramente l’attenzione di Trump, perlomeno nei primi mesi del proprio mandato, sarà rivolta più alle questioni di politica interna – commenta il direttore dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), Paolo Magri – Prima o poi, però, dovrà spiegare in maniera più elaborata che cosa concretamente intende fare di fronte alle principali minacce all’ordine internazionale. Durante la campagna ha usato toni molto accesi contro Isis e al tempo stesso ha lasciato intendere di non considerare Assad in Siria come il male peggiore. Più probabilmente, ci troveremo di fronte a un ridimensionamento e non a un totale ripiegamento”.

Una scelta simile rischierebbe di intaccare ancora di più i rapporti tra la nuova amministrazione e le élite militari a stelle e strisce che non vedrebbero di buon occhio un ridimensionamento della presenza americana negli importanti scenari mondiali. “Nella dottrina isolazionista di Trump rientra per forza di cose anche il ridimensionamento dell’impegno esterno delle forze armate statunitensi – continua Magri – Al tempo stesso, però, in campagna elettorale ha dichiarato di non voler diminuire la spesa per la difesa. Si potrebbe dire che, quando scoprirà che l’attivismo militare internazionale si traduce in innegabili vantaggi per l’industria della Difesa, probabilmente sarà più disponibile a tornare sui suoi passi”.

Lo scenario siriano: “Se Trump mette in atto i suoi proclami, Assad e Putin ne gioveranno”
Ridimensionamento, isolazionismo e uscita graduale dalle aree calde del pianeta significherebbe anche minore potere ai vari tavoli delle trattative. Primo di tutti quello siriano. “Se il ridimensionamento mediorientale dovesse diventare realtà, a beneficiarne sarebbe la Russia”, spiega il direttore di Ispi. Vantaggi dei quali gioverebbe anche il primo alleato russo nell’area, ovvero il presidente Assad. Lo stesso che il neopresidente americano aveva detto non essere “il male peggiore per la Siria”. “Ѐ anche vero che, per ottenere il favore del Congresso, ciò potrebbe tradursi in una sorta di ‘grande compromesso’ in cui tutti gli attori coinvolti possano ricavarne un vantaggio – puntualizza Magri – Non dimentichiamo che favorire la Russia in Siria significherebbe anche favorire l’Iran, paese su cui Trump non ha risparmiato minacce e condanne”.

In generale, in tutta l’area mediorientale e non solo, a esultare per l’elezione di Trump sono quei governi forti che temevano le politiche interventiste di Hillary Clinton che non avrebbero permesso loro di agire in totale libertà. “Per quanto riguarda gli stati del Golfo – spiega il professor Magri -, difficile pensare che vengano recisi legami economici e militari fortemente consolidati, che hanno risentito del congelamento tutto politico operato da Obama con la decisione di aprire all’Iran. Per quanto riguarda la Turchia, vale in un certo senso il discorso fatto per Putin: se l’ammirazione espressa da Trump per gli ‘uomini forti’ dovesse trasformarsi in dottrina di politica estera, possiamo immaginare un Erdogan ancora più ‘spavaldo’”. Dottrina che varrebbe anche per l’altro uomo forte del mondo arabo, il generale egiziano al-Sisi che ha già chiamato il neopresidente per congratularsi.

Gli scontenti: Palestina e Iran
Qualsiasi fosse stato il risultato delle urne americane, c’è un governo che si sarebbe potuto considerare vincitore: Israele. Il rapporto tra Benjamin Netanyahu e l’ex presidente Usa Barack Obama, si era deteriorato nel corso degli otto anni di presidenza democratica, fino a toccare i minimi storici. I grandi finanziamenti ebraici per la campagna elettorale americana sono arrivati nelle tasche di Clinton che ha ottenuto anche il 70% del voto degli ebrei statunitensi. Ma il risultato a sorpresa non ha scontentato Tel Aviv: Netanyahu ha chiesto un incontro con il nuovo inquilino della Casa Bianca il prima possibile, mentre Naftali Bennett, ministro dell’Educazione e leader del partito della destra religiosa Focolare Ebraico, ha esultato con un “è finita l’era dello Stato palestinese”. “I rapporti con Israele non potranno che essere migliori rispetto al punto di rottura raggiunto con Obama – commenta Magri – Del resto, in campagna elettorale Trump ha dichiarato che, se eletto presidente, si sarebbe speso per lo spostamento della capitale dello Stato di Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, sancendo così in modo definitivo la sovranità ebraica sulla città contesa. Anche in questo caso dobbiamo stare a guardare se effettivamente così farà, e se ciò sarà politicamente possibile”.

Chi, invece, è sul chi va là dopo la vittoria del magnate newyorkese è la Repubblica Islamica dell’Iran. Durante tutta la sua campagna, il neoeletto presidente ha sottolineato la volontà di rivedere in favore degli Stati Uniti l’accordo sul nucleare di Teheran, sottolineando la sua completa avversione a una collaborazione con quello che considera il più grande finanziatore del terrorismo internazionale. Parole che, dopo i risultati del voto, hanno provocato l’immediata reazione dei vertici del governo di Ali Khamenei che ha invitato la nuova amministrazione a “rispettare i termini degli accordi internazionali”.

“Se dovessimo affidarci solamente alla figura del presidente Usa – conclude l’analista -, ci sarebbe il rischio concreto di veder saltare l’accordo. C’è da dire, però, che il presidente non agisce solo: anche il Congresso dovrebbe esprimersi in questo senso. E se anche si esprimesse in maniera favorevole, l’ultimo appiglio sarebbe rappresentato dal fatto che, sul piano politico internazionale, la decisione di rompere l’accordo equivarrebbe a un suicidio perché stiamo parlando di un accordo negoziato a livello internazionale. Se gli Usa dovessero ritirarsi, difficilmente troverebbero negli altri attori del gruppo 5+1 una sponda per quanto riguarda la reintroduzione delle sanzioni e la rinegoziazione dell’accordo”.

Twitter: @GianniRosini

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