Era stato il “tecnico“, prima di tutti: da non parlamentare fu chiamato a capo del governo, per portare per mano alle elezioni un Paese in ginocchio, dopo le bombe della mafia e il disastro di Tangentopoli. E doveva essere il primo a risalire al Quirinale, alla fine del settennato, per un secondo mandato. “Ora vedremo” rispose durante Ciampi 6una visita ufficiale a Livorno, cercando di non deludere i vicini di sua cognata Tamara. In realtà, dopo qualche ora, appena tornato a Roma, Carlo Azeglio Ciampi fece scrivere una nota di poche righe: il mandato da presidente è troppo lungo per la nostra Repubblica, disse, e poi ho 85 anni. Non ha mai cambiato idea: respinse con un sorriso la richiesta di bis del pubblico e si ritirò a fare il senatore a vita e il bisnonno, tornò al cinema e a teatro, quello che aveva sempre voluto, finché la salute glielo ha consentito.

D’altra parte quel rifiuto così gentile non fu una sorpresa. Mentre attraversava Livorno insieme a Franca, a pochi giorni dalla fine del mandato, la sua città lo acclamava e lui restava in silenzio, sorrideva e restava in silenzio, stringeva mani, sorrideva e restava in silenzio, che forse è il modo dei livornesi per commuoversi e non farlo vedere. “Abbiamo la fama di essere impulsivi – rispose ai cronisti, parlando di sé e degli altri livornesi – Che non facciamo prevalere i pregiudizi sul cuore. Anzi, lo sappiamo, il cuore è la nostra forza e quando il cuore finisce alla testa abbiamo i livornesi capaci di costruire e di rendere Livorno la città che è: positiva, aperta, generosa“. Una lezione che la sua città ogni tanto si dimentica, presa com’è dalle crisi e delle contraddizioni dei tempi di oggi.

Livorno non gli era rimasta solo nell’accento dei discorsi di fine anno – quelle c, quelle t, quelle g non gli andarono mai via nonostante i decenni passati a Roma. “Sono Ciampi 4sempre stato e sempre sarò uno di voi – ringraziò passando per le strade che aveva lasciato quando aveva 31 anni – Sarò caratterizzato da quella schiettezza e concretezza nell’affrontare le vicende della vita, dalle più piccole alle più importanti che hanno reso proverbiale il nostro carattere di livornesi”. Schiettezza e concretezza: nota di poche righe e rifiuto di un secondo mandato.

Fu lui a ridare una parvenza di senso al tricolore, all’inno di Mameli, all’unità d’Italia dopo decenni in cui la sinistra guardava tutto questo con sospetto: lo sguardo bonario e il tono da sala d’aspetto vinsero sugli strepiti del partito di secessione e di governo. I garibaldini livornesi erano stati centinaia (in 800 parteciparono alle varie spedizioni per la Sicilia), per Garibaldi Livorno era una seconda casa e uno dei suoi soldati si chiamava Giuseppe Bandi: fondò il Telegrafo, poi diventato il Tirreno, il giornale della città. E così il suo lungo “viaggio in Italia” durante il settennato, Ciampi lo fece cominciare e finire a Livorno.

Dormì sempre da Tamara, la vedova di suo fratello Giuseppe, anziché in prefettura. “E’ come se non mi fossi mai staccato”. Il nipote è proprietario del negozio di ottica più antico (“Ciampi Ottico dal 1863”), la zia Milla era una delle figure più impegnate nella diocesi di Livorno, qui aveva due vecchi compagni del Partito d’Azione (con il quale combatté la Resistenza), due fratelli che di cognome facevano Misul ed erano esponenti della Comunità ebraica, una delle più numerose d’Italia. Era stato amico del primo sindaco di Livorno, Furio Diaz, e di uno dei suoi successori, Nicola Badaloni.

Ciampi 3Dal Colle più alto il suo sguardo indugiava sempre su Livorno: pareva che si affacciasse solo per mettere una mano a coprire il sole e capire cosa accadeva laggiù in fondo, tra Torretta e Quercianella. Quando alle 13,06 del 14 maggio 1999 fu proclamato capo dello Stato le sirene del porto cominciarono a suonare. “Noi siamo gente riservata, zio Carlo dice che quando una cosa è davvero riservata uno non la rivela neanche a se stesso – confidò in quei giorni il nipote Paolo, il proprietario del negozio di ottica – Ma oggi siamo tutti commossi. Se solo ci fosse anche mio babbo, Giuseppe, come sarebbe felice…”. Giuseppe Ciampi era morto nel settembre dell’anno prima.

Nel 2004 da presidente volle inaugurare il teatro Goldoni chiuso da vent’anni, quello dal quale il 21 gennaio 1921 uscirono furibondi Gramsci, Bordiga e gli altri per andare al San Marco a fare un pezzo di storia. Poco prima di quel nastro tagliato aveva ascoltato in Comune come si sarebbe trasformato il cantiere navale, che da vecchio illustre aveva ormai finito di vivere dopo una lunga agonia. Aveva attraverso Ciampi al Goldonii luoghi dell’infanzia, dell’adolescenza, l’Attias, via Magenta. I livornesi lo seguivano, lui strinse un fiume di mani, accettò di afferrare una sciarpa amaranto e sventolarla facendo vivere la più orgogliosa delle scritte: Boia dé. La sua gente ancora non si era ribellata al monocolore “rosso” e lo provocavano, come raccontò Luciano De Majo sul Tirreno: “Berlusconi mandalo via”, “Quello ci fa fa’ la fine dell’Argentina”. Si congedò parlando la sua lingua, la loro lingua, un italiano che sembra comprensibile, ma che invece a volte non si capisce: “Via, è il tocco, ora si va a mangiare”. Ai cronisti che arrivavano da Roma spiegò che il tocco a Livorno è l’una.

Al Vernacoliere riuscì il capolavoro di smitizzare l’elezione al Quirinale del livornese più celebre e insieme anche tutti i livornesi. Titolò: ‘Un beve i ponci, ‘un fa i ruti, ma che livornese è?. Troppo british per essere livornese, insomma. In realtà pare che il ponce – bevanda alcolica livornese che si prende al posto del caffè – gli piacesse. E d’altra parte nel dicembre 2005 – per il compleanno – non rinunciò ad assaggiare un po’ della sua giovinezza mentre gli arrivavano gli auguri dai capi di Stato e di governo di tutto il mondo: la Merkel, Putin, Benedetto XVI. Il presidente della Repubblica ringraziò caramente e si mise a tavola ad affondare cucchiaio e forchetta nella scodella piena di Ciampi 5cacciucco, con tutt’e cinque le c, visto che l’aveva cucinato Beppino il Mancini, il titolare della “Barcarola”, amico di famiglia. “Sono stato invitato a venire a cucinare direttamente a Roma – spiegò il Mancini al Corriere – così mi sono portato dietro le 13 specialità di pesce necessarie e il 9, il giorno del compleanno, sono partito per Roma. Mentre tornavo a casa, mi ha telefonato la signora Franca per ringraziarmi e complimentarsi per il pranzo”.

Da capo dello Stato non rinunciò nemmeno ad andare allo stadio, nel 2004. Non c’era più stato dagli anni Quaranta, quando era ragazzo. Lo stadio, costruito per volere di Benito Mussolini (suocero di un livornese ministro degli Esteri, consuocero di un livornese presidente di quella specie di Camera), forse si chiamava ancora “Edda Ciano” o forse gli americani lo avevano già trasformato in Yankee stadium. Dopo oltre cinquant’anni il Livorno tornava in serie A: “Non potevo perdermi l’avvenimento. E poi qui c’è questo bel sole“. La spontaneità di un uomo qualunque, le sue passioni (il teatro, lo stadio, il cibo, la città natale), insieme alla solidità dell’uomo delle istituzioni, il traghettatore che porta un Paese fuori dalle lacrime e dalla vergogna e cerca di farlo tornare fiero. Un po’ come Pertini, si disse.

CiampiQuel giorno, come nelle altre sue visite a Livorno, Ciampi si fece portare sul lungomare, alla Terrazza Mascagni. Camminava e guardava il mare. Lo guardava come tutti i livornesi, come se cercasse qualcosa e senza cercare niente. L’ex funzionario della Banca d’Italia diplomato al Classico Niccolini-Guerrazzi che portava in giro nel mondo, ai massimi livelli, una fierezza che Livorno non aveva mai perso, camminava lungo le spallette bagnate dalle onde e deviava in continuazione dal suo percorso gettando nell’angoscia gli addetti alla sicurezza. Un po’ come Pertini, si disse. ”Gli italiani – aveva detto lui del più amato dei suoi predecessori – sono riconoscenti a quest’uomo orgoglioso, riservato, di generosi impulsi. Il presidente Pertini ha dato un significato nuovo, adeguato ai tempi, al dettato costituzionale secondo il quale il presidente della Repubblica rappresenta l’unità della nazione”. Il tempo dirà se lui ha insegnato la stessa lezione.

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