Matteo Renzi in trasferta brasiliana ha tutta l’aria di voler fare incetta di selfie con sportivi olimpionici per puntellare una piacioneria che sta producendo nell’opinione pubblica evidenti fenomeni di rigetto. Ma il nostro mercuriale premier dovrebbe stare più attento: come dimostrano le vicissitudini di Lula da Silva e Dilma Rousseff, l’aria di Rio de Janeiro non è particolarmente favorevole ai demagoghi mestatori.

Ennesimo segno di una perdita a precipizio di consensi da parte del Giglio Magico e del suo capo, che potrebbe prefigurare un prossimo cambio di maggioranza.

Infatti i Cinquestelle non sono mai stati tanto vicini al traguardo. Tuttavia, vista la coincidenza dei Giochi olimpici, dovrebbero prestare attenzione a quanto ci insegna la vicenda di un italiano, concorrente all’edizione di Londra 1908: il maratoneta Dorando Petri (o Pietri), che perse la medaglia d’oro proprio per un cedimento (e un aiutino indebito) a pochi passi dal traguardo.

Come lo sfortunato marciatore, anche i pentastellati, alternativi al regime che puntella la corporazione politica di Seconda Repubblica, devono prestare molta attenzione agli ostacoli e ai trabocchetti che possono far inciampare prima del filo di lana. Magari gli autogol nella cosiddetta “zona Cesarini”.

Qui di seguito se ne srotola un piccolo campionario:

1. Il vizio dell’arrocco, inteso come difesa pregiudiziale e pervicace di qualsivoglia scelta, anche palesemente sbagliata, per rifiutarsi di ammettere un errore e continuare a perpetuarlo testardamente. Come rischia di fare la neo-sindaca capitolina Virginia Raggi (e con lei i notabili che la circondano), che sinora non ha dato prova di tocco particolarmente felice nella scelta dei collaboratori. Dall’imbarazzante assessore di lunga navigazione consulenziale Paola Muraro al vice capo gabinetto in quota Alemanno, Raffaele Marra. Così offrendo argomenti all’opposizione, che non possono essere rintuzzati soltanto rinfacciando il discredito di chi li esprime, mentre si rischia di impiombare le ali sul nascere al tentativo di introdurre il buongoverno nella Capitale;

2. Il richiamo della foresta, inteso come acritica apertura di credito a interlocutori da vagliarsi con ben maggiore attenzione. Per cui, dopo la cantonata Nigel Farage, il ministeriale entrista Di Maio corteggia lobbisti e docenti para-renziani della Luiss; il terzomondista Di Battista segue Matteo Salvini e Giulietto Chiesa nelle strizzatine d’occhio rivolte al bieco Vladimir Putin;

3. La sindrome di Pietro, intesa come variazione sul tema del punto “A”: la presunzione di tocco salvifico che guidò l’ex magistrato nelle sue disastrose campagne acquisti quale leader di Italia dei Valori. Difatti personaggi tipo il voltagabbana Domenico Scilipoti, il tangentaro Sergio De Gregorio o l’insabbiatore del massacro all’istituto Diaz dopo il G8 Giovanni Paladini, vennero arruolati da un leader che pensava di redimerli semplicemente con il proprio tocco. Allo stesso modo la selezione del personale dirigente 5S non può basarsi soltanto sul rito formale dei curricula e sull’omaggio vassallatico del designato/a al presunto duo taumaturgico Grillo-Staff;

4. Il mito del padre, inteso come sottomissione psicologica alla presenza incombente di Beppe Grillo. Di certo grande macchina acchiappavoti da cui sarebbe suicida prescindere, ma anche mina vagante per il sempre più palese confusionismo in materia di posizionamento politico. Del resto anche nella scena pubblica si diventa adulti liberandosi della figura paterna.

Elenco attendibile? Considerando i vincoli para-settari di cui il Movimento ancora non si è liberato, posso nutrire io stesso qualche dubbio. Comunque, parafrasando Enrico IV di Borbone, “Il Quirinale val bene un’overdose di laicità”.

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