Da quando David Foster Wallace ha indicato nell’ironia uno dei mali di questi tempi, via di fuga comoda alla realtà, è diventato più difficile usarla senza sentirsi in qualche modo in colpa. Ma quando questo 2016 ha cominciato, addirittura con qualche giorno di anticipo sulla rotazione terrestre, a portarsi via i pilastri del rock, quelli che già non si era portata via la vita in accelerazione dell’epoca d’oro del genere, in molti abbiamo iniziato a scherzarci su.

Abbiamo iniziato a dire che, probabilmente, Dio o chi per lui stava pensando di organizzare un Festival dall’altra parte, prendendosi tutti quelli bravi. Quelli che non si era preso da tempo. Per ironizzare, appunto. Perché constatare che una intera generazione, quella nata negli anni quaranta, quella che ha contribuito in generi e modalità diverse a fondare le basi del rock per come lo conosciamo e, in molti casi, per come continuiamo a apprezzarlo oggi, se ne sta andando, con una cadenza quasi quotidiana, lascia altrimenti sgomenti. Eroi della musica di circa settant’anni, sopravvissuti alla loro giovane età, a volte vissuta in maniera dissipata, muoiono oggi, intorno ai settanta, come a volerci dire che tutto è cambiato.

E nessuno come Keith Emerson, morto ieri a Santa Monica nella sua villa californiana, si è accorto, nel tempo, di quanto il mondo, il mondo della musica fosse cambiato. Lui che, negli anni Settanta, è stato un vero monumento, si è trovato in qualche modo messo da parte, e prima che la cosa di cristallizzasse, con un gesto iconoclasta che così bene si addiceva al suo personaggio, ha distrutto, almeno momentaneamente, la sua creatura. Nato nel 1944 a Todmorden nello Yorkishire, Keith Emerson viene e probabilmente sempre verrà identificato come il più importante tastierista e pianista nel rock.

Dopo aver fondato i Nice, sorta di prova generale di quel che sarà poi il suo culmine musicale, nel 1970 arriva l’esordio eponimo con gli Emerson, Lake & Parlmer, al fianco dei sodali Gregg Lake, chitarra, basso e voce, e Carl Palmer, batteria e percussioni. Il genere che il trio propone è identificato come prog rock e mischia rock, classica, jazz, blues, tutto quello che vi viene in mente. I tre sono dei virtuosi, e i loro strumentali mettono in evidenza in modo particolare la geniale bravura di Emerson, cui viene affidata una tastiera, un sintetizzatore monofonico modulare, costruita per lui dal dottor Robert Moog. Per questo, nel tempo, verrà chiamato il Signore del Moog. Un gigante, questo strumento, ingombrantissimo, che però Keith porterà in giro nei live. Vederlo arroccato dietro muri di tastiere, mentre suona come un ossesso (nota è la scena in cui, una volta, arrivo’ ad accoltellare il suo strumento), fa parte a pieno titolo dall’immaginario del rock, al pari di Jimi Hendrix che suona la chitarra coi denti, di Paul Simonon che suona col basso che quasi tocca terra e così via. Grazie a lui i sintetizzatori hanno fatto il loro ingresso nell’immaginario del rock, tanto quanto gli Hammond e i Farfisa avevano fatto con Ray Manzarek de The Doors. Forse anche di più.

Con gli Emerson, Lake & Palmer ha registrato otto album in studio, coi primi tre, ELP, Tarkus e Pictures at an Exhibition, entrati di diritti nel onovero dei classici. Poi, nel 1979, il gesto iconoclasta, cosciente che qualcosa sta cambiando, con l’arrivo del punk e della new wave, Keith lascia i suoi soci. Distrugge il suo gioco. Continua a suonare, fa colonne sonore, come Inferno per Dario Argento, e da noi diventa popolarissimo per aver reinterpretato il classico Honky Tonk Train Blues di Mead Lux Lewis, diventata la sigla del programma tv di grande successo Odeon. Nel tempo ci sono state le reunion coi suoi compagni Lake e Palmer, i tour mondiali, nuove incisioni. Ma si parlava di passato, sempre e comunque di passato. Proprio nei prossimi giorni, non fosse arrivata la morte, per sua stessa mano, ci sarebbe stato un tour in Giappone, da solista. Ancora virtuoso e eccellente nel muoversi dietro le tastiere, anche se forse fuori tempo massimo.

Una piccola notazione, questa sì forse da inserire nel campo dell’ironia, seppur dell’ironia della sorte. È storia di come sarà il punk e la rottura che il punk porterà con se’ a chiudere, in qualche modo, l’epoca d’oro del prog che vide proprio Emerson tra i suoi protagonisti. Da noi, in Italia, il punk fece per la prima volta irruzione nelle case attraverso la televisione, e in un’epoca senza internet non poteva che essere così. Come ricordava il collega Carlo Bordone, la generazione di coloro che poi, più di tutti, seguiranno questa corrente, quella dei nati negli anni sessanta, incontrarono per la prima volta il punk grazie a un servizio di Odeon, Tutto quanto fa spettacolo, il programma di Mamma Rai. Allora solo Mamma Rai c’era, a livello nazionale, e aveva per sigla proprio il brano Honky Tonk Train Blues suonato dal biondo e lungocrinuto Keith Emerson.

Ai nostri occhi di bambini, per altro, anche lui sembrava un po’ punk, coi suoi gilet di pelle, i capelli biondi e lunghi, il suo modo di suonare virtuoso, sì, ma per certi versi quasi violento. Ci stavamo sbagliando, ma eravamo ancora piccoli per capire. Ieri Keith Emerson si è ucciso. Se davvero da qualche parte stanno organizzando un Festival oggi è arrivato un altro numero uno, che adesso starà organizzando un muro di tastiere per suonare Lucky man. In questi casi si dice “la terra ti sia lieve”, ma dubitiamo esista una terra capace di farlo stare calmo, anche da morto.

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