A Ferrara vivono ancora come una beffa la storia di Carife e del decreto Salva banche. Una beffa che si somma al danno fatto da chi, tra il 2007 e il 2013, ha portato allo sfascio uno degli istituti più floridi d’Italia: operazioni immobiliari sbagliate e, secondo i giudici della Corte d’Appello di Milano, truffaldine, ricapitalizzazioni inutili che avevano fatto perdere migliaia di euro ai piccoli risparmiatori, dopo le aperture di linee di credito per decine di milioni di euro a gruppi finanziari poi naufragati. Tutti fatti su cui ora lavora la procura della Repubblica di Ferrara e per i quali diversi indagati potrebbero presto essere chiamati a rispondere.

L’illusione prima del Salva banche – Eppure, dopo quella parentesi scriteriata di alcuni anni fa, in città fino al 22 novembre 2015 pensavano che il peggio fosse passato e che con lo sforzo di tutti la banca potesse uscire dalla crisi. “Il 30 luglio 2015 la Banca d’Italia, la Fondazione Carife azionista di maggioranza e il Fondo interbancario di tutela dei depositi avevano condiviso un percorso che avrebbe visto una ricapitalizzazione di Carife per 300 milioni di euro”, spiega a ilfattoquotidiano.it Tiziano Tagliani, sindaco Pd della città estense. I soldi sarebbero dovuti arrivare proprio dal Fitd, mentre i 27mila azionisti avevano detto sì a una dolorosa riduzione del valore delle loro azioni. Tutto era pronto, ma poi qualcosa si è inceppato: “Questi 300 milioni poi non sono mai arrivati”, spiega il primo cittadino, che tra luglio e novembre aveva più volte lanciato l’allarme per i destini della Cassa di risparmio e in seguito non ha risparmiato critiche ai vertici Bankitalia.

Quest’ultima, che inizialmente aveva approvato la strada del salvataggio tramite Fitd, dal canto suo dopo il decreto si è difesa dicendo che la Commissione europea era contraria e avrebbe considerato quei soldi come aiuti di Stato. “Sì, ma Carife era in una situazione diversa rispetto alle altre tre banche, che avevano situazioni non risolvibili con questo strumento”, ribatte Tagliani. Ad ogni modo il 22 novembre il decreto ha azzerato due secoli di storia bancaria, trasformando in carta straccia i soldi di 27mila azionisti e 4mila obbligazionisti subordinati. Esattamente come è successo a quelli di Banca Etruria, Carichieti e Banca Marche.

La versione di Capitanio – Giovanni Capitanio non è solo l’amministratore delegato della good bank Nuova Carife, creata per decreto. Lui era anche il commissario straordinario nominato da Bankitalia nel maggio 2013, per salvare l’istituto in difficoltà. Assieme al suo collega Antonio Blandini, aveva preparato la strada per il salvataggio con i 300 milioni. “Il pomeriggio del 30 luglio 2015, noi commissari avevamo finito il nostro compito e aspettavamo che il Fitd ci facesse il bonifico di 300 milioni. Poi – ha raccontato nei giorni scorsi ai consiglieri comunali e a una cinquantina di piccoli azionisti venuti a sentirlo in municipio durante una seduta di Commissione – poche ore prima del 21 novembre abbiamo saputo che Fitd aveva ricevuto un parere non positivo”. Sul perché dentro la tagliola ci sia finita pure la banca di cui era commissario, Capitanio non si pronuncia: “Il 22 novembre ci è passato un provvedimento legislativo qui, sopra la testa”, dice a uno dei consiglieri. Poi aggiunge che però, a quel punto, senza quei 300 milioni di Fitd, “se non fosse avvenuta l’operazione del 22 novembre non saremmo qua”. Ora contro il decreto c’è un ricorso al Tar presentato dalla Fondazione Carife, che della vecchia Cassa di risparmio era azionista di maggioranza e che si è trovata con in mano carta straccia al posto delle azioni. Secondo il ricorso, il no all’erogazione dei 300 milioni di euro da parte di Fitd, che è un fondo assicurativo dei depositi costituito dalle banche private e quindi “del tutto estraneo alla tematica degli aiuti di Stato”, è stato ingiustificato.

L’inchiesta sull’aumento di capitale varato quando l’istituto era già in difficoltà – E poi c’è la procura che da tempo lavora sul dossier della Cassa di risparmio. Senza il clamore di altre indagini come quelle dei pm di Arezzo su Banca Etruria, il procuratore capo Bruno Cherchi e i due sostituti Barbara Cavallo e Nicola Protohanno hanno già iscritto nel registro degli indagati diversi personaggi legati a questa vicenda e ai suoi vari momenti. Sotto la lente dei magistrati c’è innanzitutto l’aumento di capitale del 2011 quando la Carife in difficoltà, con l’assenso di via Nazionale, ha lanciato una ricapitalizzazione da 150 milioni di euro. Pochi mesi dopo però le nuove azioni cominceranno a cadere in picchiata e i piccoli azionisti ferraresi perderanno un sacco di soldi. Inoltre dopo il 22 novembre la Procura ha aperto un fascicolo, ancora in nuce, sugli esposti presentati dai tanti obbligazionisti subordinati che ritengono di non essere stati informati correttamente agli sportelli sui rischi che correvano acquistando quei prodotti finanziari. A condire il tutto è poi arrivata la dichiarazione d’insolvenza di Carife da parte del Tribunale fallimentare. E così, come già accaduto per Banca Etruria, per i pm si apre anche la strada per un nuovo filone d’inchiesta relativo a reati di quelli ipotizzati al momento, come la bancarotta.

Gli investimenti milanesi finiti male – Del resto le operazioni dagli esiti catastrofici non mancano neanche a Ferrara. Come le due attività immobiliari milanesi, su cui è già in corso un processo arrivato lo scorso settembre alla sentenza d’Appello e sul quale però la procura ferrarese potrebbe non avere più voce in capitolo. Resta il fatto che la ricapitalizzazione nel mirino dei pm nasce proprio in seguito a questi investimenti e, in particolare a quello nel quartiere Santa Monica, una zona residenziale con palazzine, parchi e persino un laghetto alle porte del capoluogo lombardo. A metà degli anni Duemila l’allora direttore generale Gennaro Murolo aveva portato Carife a fare affari oltre i confini del Ferrarese in cui la Cassa aveva prosperato. Siamo nel 2006 e la banca tramite la sua controllata Vegagest finanzia con 97,5 milioni di euro l’acquisto dei terreni relativi al progetto e concede prestiti ad alcuni gruppi impegnati nel progetto, tra i quali quello dei fratelli campani Siano e la Sopaf dei milanesi Magnoni. Peccato che i terreni fossero stati comprati a cifre irrilevanti in confronto al prezzo di vendita alla banca. Tanto che dentro Carife non manca chi fa notare i rischi dell’operazione. Il direttore generale però sostiene che grandi banche sono interessate a finanziare il progetto. Al suo presidente parla dei Siano come “operatori economici molto potenti, in grado di garantire di più la banca”. Alla fine però, complice anche la crisi del 2008 e il crollo del mercato del mattone, il progetto si arena e quei soldi Carife non li rivedrà mai più. Poi c’è l’operazione Miluce, anche questa naufragata e anche questa finalizzata alla costruzione di un complesso residenziale in zona Porta Garibaldi tramite la controllata Vegagest con il coinvolgimento del gruppo Siano. Complessivamente il tutto costa alla Cassa l’iscrizione a sofferenza di oltre 100 milioni di euro e, a seguire, il varo della ricapitalizzazione da 150 milioni di euro, somma pari all’esposizione della banca con il gruppo Siano.

Dopo una condanna in primo grado, un’assoluzione in secondo grado e un annullamento con rinvio in Cassazione, lo scorso settembre la Corte d’appello di Milano ha assolto tutti per la vicenda Miluce. Per il caso Santa Monica invece è arrivata la prescrizione: secondo i giudici tuttavia non ci sono dubbi sulla “sussistenza di una truffa” da parte di Murolo e altri imputati nei confronti di Carife. Il cda della banca, si legge nelle motivazioni alla sentenza, era stato tenuto all’oscuro dei rischi dell’operazione.

I crediti ai gruppi falliti e in concordato  Non a caso commissari Blandini e Capitanio lo scorso luglio hanno inoltre intentato una causa civile con una richiesta di danni per 100 milioni di euro a carico di decine di ex amministratori. La somma contestata ammonta in tutto a 309 milioni e comprende il danno, stimato in circa 140 milioni, per la vicenda Vegagest. Ci sono poi i 12 milioni per una fideiussione su un fido chiesto alla Cassa di risparmio di Cesena, sempre per la vicenda milanese. E poi c’è il caso di Commercio e Finanza, società di leasing napoletana dal 2002 in mano a Carife per la quale gli ispettori della Banca d’Italia hanno parlato di “insostenibilità”. La banca inoltre sta ancora cercando di recuperare parte dei soldi prestatial gruppo Deiulemar, compagnia di navigazione napoletana naufragata in un clamoroso crac, e al gruppo Acqua Marcia dell’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone al momento in concordato preventivo. Precedenti alla luce dei quali ora Capitano promette che la banca finanzierà “le piccole e medie imprese del territorio di Ferrara e solo di Ferrara e del ferrarese”.

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