Piero Gobetti muore in Francia il 15 febbraio 1926 ad appena ventiquattro anni e mezzo, in conseguenza dei postumi delle bastonature fasciste. Giornalista, direttore di testata ed editore, ha abbracciato vasti ma non superficiali interessi verso le scienze sociali, la filosofia, la letteratura e il teatro.

Una precocità che gli ha permesso, prima di altri, di capire le radici del fascismo appena insediatosi, visto come male antico della società italiana e autobiografia della nazione, definizione ripresa dal meridionalista Giustino Fortunato.

Gobetti ha chiara la diversità del fascismo settentrionale – squadrista e violento – dalle forme più trasformiste, opportuniste e clericali che caratterizzano l’adesione al movimento nel Mezzogiorno. Ancora di più, Gobetti legge il fascismo nel prevalente carattere dell’italiano, nella sua vocazione verso il populismo (Mussolini ha colto “la teatralità italiana”), dove l’alternativa è tra la libertà e l’unanimismo, categoria nella quale Gobetti vede una più pericolosa forma di potere. Il richiamo del fascismo non coinvolge soltanto proprietari terrieri e industriali, ma anche reduci, borghesi impoveriti e il proletariato che non si riconosce nel Partito socialista, come appare negli articoli di Mario Vinciguerra pubblicati da Gobetti.

L’intellettuale torinese compie un’autocritica ancora attuale sulla dissoluzione del primo sistema parlamentare, osservando come il fascismo si insedia in una democrazia incompiuta che sconta l’assenza di un autentico liberalismo conservatore, un vuoto che si protrae nel secondo dopoguerra repubblicano, dove latita un partito democratico conservatore sul modello inglese o sulla traccia del gollismo francese. Gobetti, che guarda alle borghesie europee, anela a una rivoluzione liberale, richiamo dell’omonimo settimanale da lui fondato nel 1922. E’ una preoccupazione preminente per Gobetti che proviene dalla cultura liberale e ha Luigi Einaudi (poi primo presidente della Repubblica) tra i suoi maestri e vede in Camillo Cavour e Stefano Jacini punti di riferimenti del passato. Il suo però non è un liberalismo immobile. Tra i personaggi della stagione risorgimentale, a cui Gobetti dedica il suo interesse, c’è anche il federalista e repubblicano Carlo Cattaneo i cui rimandi lo rendono cosciente della complessa e plurima identità italiana, illusoriamente velata dai richiami letterari cari alla retorica fascista.

Gli elementi di contaminazione e trasversalità del pensiero gobettiano non si esauriscono all’”eresia” federalista di Cattaneo, ma si riflettono nel grande interesse verso l’occupazione operaia delle fabbriche nell’autunno del 1920, letta come processo di inserimento operaio nella dialettica democratica. Il richiamo alla partecipazione pone la necessità della rappresentanza, del controllo e dell’opposizione in uno Stato che non può essere ridotto a entità burocratica. Da liberale, e prima della classe dirigente liberale, capisce che il futuro è nel partito di massa e nella democrazia di massa, strumenti che i vecchi liberali rifiutano preferendo abbracciare il fascismo anziché accettare la sfida della modernità nel pluralismo. Anche politici di vaglia come Bonomi, Giolitti, Orlando votano il 16 novembre 1922 per il governo Mussolini, comprendendo in ritardo il loro errore.

Per Gobetti, il conflitto sociale è un’espressione di democrazia, acquisizione non scontata nemmeno nel primo quindicennio di democrazia repubblicana quando, in risposta alle lotte sindacali, non manca il frequente ricorso alle forze di polizia.

Restano attualissime le pagine dedicate da Gobetti alle élite dirigenti. Dote primaria dei rappresentanti del popolo deve essere la morale: si è élite perché si possiede un elevato profilo etico e l’onestà viene prima della capacità politica.

Gobetti è naturalmente molto altro: come editore pubblica Ossi di seppia del ventottenne e sconosciuto Eugenio Montale avvertendolo però che “per un volume di eccezione e di gusto come il suo c’è in Italia uno scarso pubblico”.

Di Gobetti è anche il primo ritratto di Giacomo Matteotti, all’indomani della morte ordinata dai vertici fascisti, in un instant book che ammira nel leader socialista il suo procedere per “esigenze interiori”, estraneo al fascino del potere, coraggioso e concreto nella lotta.

Dal pensiero gobettiano nascerà il movimento di Giustizia e Libertà, liberal socialista o socialista liberale, a seconda delle declinazioni, che porterà alla nascita del Partito d’azione, protagonista della stagione resistenziale.

Gobetti incarna la figura dell’intellettuale impegnato e senza preclusioni – capace di dialogare con Einaudi, Gramsci e don Sturzo – convinto che la cultura e la passione civile – intese come formazione pratica alla cittadinanza – siano indispensabili per elevare la qualità della vita politica e sociale di un Paese.

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