PARIGI – “Le banlieue non sono il quartier generale dell’esercito dell’Isis, ma è vero che qui c’è poca polizia e si fanno meno controlli”. Il sindaco di Saint Denis Didier Paillard, banlieue alle porte di Parigi, ha appena finito il minuto di silenzio in ricordo delle vittime degli attentati nella capitale del 13 novembre scorso. Lui, primo cittadino del quartiere colpito dai moti nel 2005, ha deciso di tenere aperto il comune e le campane della chiesa di fronte hanno suonato due volte. In piazza decine di persone, anche se i raduni sono vietati. Durante la mattina è circolata la voce che uno degli attentatori era residente a Drancy, pochi chilometri distante. “Non abbiamo nessuna conferma”, dice il sindaco. “Non veniteli a cercare qui i terroristi. Possono essere ovunque. E’ sbagliato pensare che si tratti di un problema delle banlieue: è un problema della nostra società. Qui abitano 130 nazionalità diverse. Qui manca il lavoro, oggi come nel 2005, qui c’è la povertà e ci sono meno servizi che a Parigi. A settembre scorso 150 bambini erano senza insegnanti. Come può essere ancora possibile tutto questo?”.

La capitale dista dodici fermate di metropolitana. Eppure bastano per sentirsi nel mondo di serie b. Dopo i moti del 2005, lo Stato francese ha cercato di intervenire con i programmi di integrazione, per cercare di dare radici e normalizzare il territorio. Ma ancora non basta. Durante le elezioni del 2012 il collettivo Ac Le Feu aveva creato un ministero per la crisi della banlieue a Clichy-sous-bois. Lì i foyer, i casermoni di alloggi sociali, arrivano fino al cielo e chi entra e non è francese viene inseguito come “lo straniero”. Non si possono fare domande perché se non viene lo Stato ad aiutarli, perché i giornalisti o semplicemente gli “altri dovrebbero essere i benvenuti?”.

“Se abbiamo paura? I terroristi sparano a Parigi, mica qui. Solo la sera meglio non uscire di casa”, spiega un uomo romeno di 48 anni. “Ci sono gli estremisti. Sappiamo tutti dove sono qui nei quartieri. La polizia? Chi lo sa. Sono in giro, fanno interventi. Hanno molto da fare. Ma poi. Quello che è successo a Parigi è terribile. Se ci fossi stato io e se fossi stato armato avrei sparato a tutti. Devo pensare a proteggere i miei figli”. Siamo nella zona dello Stade de France, uno dei luoghi degli attacchi terroristici. “Qui hanno trovato una macchina piena di kalashnikov poco distante”. Mentre parla la polizia interviene in un bar per fermare una rissa, si forma un capannello di persone: “Il problema è che le forze dell’ordine hanno tanto da fare. Io qui non ho paura. Ma so che stanno perquisendo le case di tanti nei dintorni”.

Il dipartimento della Seine Saint Denis è sempre quello. Quello che periodicamente scende nelle strade, che chiede lavoro e interventi sociali. Quello dove è più difficile fare controlli. “Io sono musulmano”, spiega un abitiante tunisino, “ma nelle moschee non ci vado. Abito a Saint Denis da 41 anni e mi sento francese. Ho imparato a vivere in questa zona e ora sto bene. Ma so che è meglio restare a casa a pregare. Non mi piace perché spesso si fa il lavaggio del cervello alle persone povere e senza lavoro: gli mettono strane idee in testa parlando del paradiso e di quello che possono avere se muoiono”. Gli esperti lo chiamano il fenomeno del “fondo delle moschee”: non sono tanto i discorsi che fanno gli Imam o le loro prediche ufficiali, piuttosto sono quello che si dicono i gruppi organizzati a margine e che scelgono i luoghi di culto per parlare. Il presidente Hollande ha promesso che il governo a proposito non avrà pietà e che verranno chiusi i luoghi di culto dove si predica l’estremismo. “Lo sanno già dove sono certi posti”, conclude. “Poi però qui fanno poco o nulla. Quindi ci arrangiamo: sappiamo dove non andare, sappiamo che bisogna evitare i quartieri ‘caldi’. I miei figli hanno studiato e so che è l’unico modo per farli riscattare. Solo non tutti hanno questa fortuna”.

Il sindaco di Saint Denis ha pubblicato un manifesto davanti al Comune, dice siamo solidali con le famiglie delle vittime e “restiamo uniti”. “Non è difficile far andare bene le cose”, conclude, “quando mancano i servizi di cui possono godere tutti i cittadini”. Poco distante l’Imam della moschea in rue de la Boulangerie non parla. I fedeli radunati per la preghiera delle 15 cacciano tutti i giornalisti e i curiosi: “Siamo stanchi di doverci giustificare per cose che non abbiamo fatto. Noi non siamo terroristi, lasciateci in pace”.

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