Lo spettro dell’Isis risale fino al Bosforo: la porta d’Oriente, crocevia di uomini e commerci, sembra esser rimasta aperta alla minaccia della Stato Islamico. Tanto che il califfato si sarebbe infiltrato nelle case dei quartieri di Pendik e Baseksehir, a Istanbul, divenute centri di addestramento e indottrinamento per bambini. A dichiararlo sono le autorità turche. Secondo il quotidiano Vatan, la polizia ha infatti arrestato 50 persone, di cui 24 bambini, provenienti dal Tagikistan e dall’Uzebkistan, accusate di avere legami con l’Is (ad oggi sarebbero 5.000 gli uzbechi a combattere al fianco dello Stato Islamico in Siria). Un fatto accaduto all’indomani dell’identificazione da parte del governo del presidente Erdogan dei due attentatori della strage di Ankara dello scorso 10 ottobre.

Secondo le autorità i due kamikaze, Yunus Emre Alagöz e Ömer Deniz Dündar, erano entrambi membri di una rete di supporto dell’Isis nel sud est della Turchia. I servizi segreti sarebbero arrivati a loro grazie a delle indagini sui legami con al-Qaeda di Dündar. Un’inchiesta che tuttavia è stata ora abbandonata, come tralasciata sembra essere la pista del Pkk, che pure era stato accusato dal premier Ahmet Davutoglu di aver concorso all’organizzazione dell’eccidio nel cuore della Turchia. Secondo il quotidiano Zaman, poi, sarebbero 4.300 i membri dell’Isis residenti nel Paese. In base a un rapporto riservato dell’intelligence turca, almeno 200 sarebbero i jihadisti al momento pienamente in attività, mentre altri 4.100 sono considerati come cellule dormienti.

Per il premier Davutoglu non c’erano stati comunque dei dubbi: davanti alle telecamere della Ntv, all’indomani della strage aveva immediatamente parlato di “un tentativo di influenzare le elezioni del primo novembre e di gettare un’ombra sul loro risultato”. Eppure, come se non bastassero le strade della capitale sporche di sangue, più si avvicina il momento di tornare alle urne, più l’ago della bilancia di tutta la questione sembra essere un altro: lo scontro più acceso è quello tra il Pkk e il partito filo-curdo di Demirtas, l’Hdp. Quest’ultimo, con le elezioni parlamentari di giugno, è riuscito a superare la temuta soglia di sbarramento del 10%, garantendosi 80 seggi. L’Hdp è così divenuto più influente del Pkk, trasformandosi agli occhi degli elettori curdi nel migliore interlocutore per il riconoscimento dei propri diritti, e riunendo sotto la sua sigla anche una parte dell’elettorato di sinistra. Ma il Partito dei Lavoratori Curdi non ci sta: Demirtas è visto come un traditore della causa curda, in uno scontro infarcito da un botta e risposta tra i due partiti che li ha divisi perfino su questioni ideologiche condivise fino alle elezione del 7 giugno, e che assomiglia, secondo il quotidiano nazionale Hurriyet, alla battaglia politica tra Hdp e l’Akp di Erdogan.

L’escalation di violenze, sin dopo gli attacchi kamikaze di Suruc e Kobane e il cessate il fuoco con l’Akp, ha incrinato come mai era accaduto i rapporti tra Pkk e il partito di Demirtas. Ora il solco tra i due si fa ancora più profondo, se non del tutto insanabile, all’indomani degli attentati di Ankara: l’Hdp segue una via politica e istituzionale per la soluzione delle istanze della questione curda, mentre il Pkk è fermamente convinto che il negoziato di pace con il governo turco sia ormai definitivamente sepolto. E se l’ingresso nel Parlamento turco dell’Hdp ha suggerito a tutti come la lotta armata potesse essere abbandonata, quei 97 morti nella capitale non fanno che giustificarla nuovamente, indebolendo agli occhi dei curdi i rappresentanti istituzionali. Demirtas non si è mosso velocemente per prendere le distanze dal Pkk, e l’ipotesi, promossa dagli stessi leader del suo partito, dell’Erdogan ”eminenza grigia” pronto ad attuare una strategia della tensione dopo gli attacchi di Ankara, non gli hanno comunque concesso di colmare il vuoto. Salta dunque il ruolo di Demirtas come mediatore, proprio a pochi giorni dal voto: l’Hdp, che continua a proporsi come rappresentante di tutto il popolo curdo, e non solo della minoranza a sud-est del paese, rischia ora di deludere grossa parte del suo elettorato, quando il compromesso con l’Akp, il cui unico interesse è quello di tenerlo lontano dal Parlamento, è ormai impossibile.

Un intrigo che si complica se ci si sposta sul piano internazionale. L’aviazione di Ankara, nonostante il cessate il fuoco unilaterale lanciato dal Pkk, ha continuato a bombardare i suoi obiettivi al di là del confine con Damasco. Tra la campagna militare russa in Siria, e la Nato a gestire le basi a sud del paese, Erdogan deve ancora riuscire a gestire l’emergenza migranti provenienti dal Maghreb e dal Medio Oriente. Davutoglu durante un incontro con Angela Merkel ha lanciato l’ennesimo guanto di sfida all’Europa: la Turchia “non è un campo di concentramento in cui stanno tutti i rifugiati” e non li ospiterà per sempre per tranquillizzare l’Europa, ha detto. A Istanbul con la Cancelliera tedesca, Davutoglu ha sciorinato la sua dialettica da studioso delle Relazioni Internazionali: “L’immigrazione illegale deve essere tenuta adeguatamente sotto controllo, quindi creeremo dei meccanismi condivisi con l’Ue. Ma non possiamo accettare un accordo del tipo ‘noi vi diamo i soldi e loro restano in Turchia’”. Durante il meeting si è parlato di tre miliardi di euro “come nuove risorse”, ma non come una somma fissa. Anzi: i tre miliardi proposti sarebbero arrivati dal fondo Ipa, strumento europeo di assistenza dedicato ai Paesi candidati e potenziali candidati a entrare nell’Ue, ma la Turchia avrebbe rifiutato la proposta, facendo sapere di non volerla accettare. Con i curdi che fuggono dallo Stato Islamico, e la Turchia non in grado di gestire il flusso anche per rivalità interne, c’è dunque da aspettarsi che l’escalation di violenza acuisca il caos in cui si trovano i confini turchi, dando sponda al presidente Erdogan per rimarcare il suo peso politico internazionale.

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