“La riforma Madia trasforma la dirigenza pubblica in affare privato, asservito agli interessi dei partiti. E rischia così di aumentare la corruzione”. Firmato, la dirigenza pubblica. Alzi la mano chi non vorrebbe una pubblica amministrazione efficiente, snella e meritocratica. Soprattutto dopo il profluvio d’inchieste che hanno colpito l’Italia degli appalti pubblici, isole comprese: dal Mose di Venezia all’Expo di Milano, fino ad arrivare a “Mafia Capitale” e passando per il “sistema Incalza” delle Grandi Opere e giù giù fino a Ischia. E allora, che Riforma sia.

Ebbene, mercoledì va all’esame dell’Aula del Senato il testo del Ddl Madia che ridisegna in profondità la legge quadro della Pubblica Amministrazione (n. 165/2001). La commissione Affari costituzionali ha concluso l’esame e approvato il testo – in gran parte rivisto – dopo otto mesi dall’avvio. Una delle novità più rilevanti investe i dirigenti pubblici che se privi d’incarico saranno collocati in disponibilità e – passato un certo periodo – decadranno dal “ruolo unico”. E potranno essere infine licenziati.

Evviva. Ma siamo poi sicuri che sia una buona riforma? Che vada davvero a sanare le storture della Pa nell’interesse del cittadino e non nella direzione contraria, di asservire ulteriormente la dirigenza pubblica ai dettami, alle richieste e all’imperio della politica? Il dubbio – come è ovvio che sia – se lo sono posti per primi i diretti interessati. Ad esempio gli allievi della Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA), l’istituzione di alta cultura e formazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri che ha il compito “istituzionale” di sostenere i processi di cambiamento nell’Amministrazione. L’associazione si rivolge a circa 500 professionisti che operano in ministeri, agenzie ed enti pubblici.

Il presidente della associazione allievi della SNA, Alfredo Ferrante, avanza critiche che è difficile congedare come una difesa corporativa e sono anche confermate da giuristi non tacciabili di partigianeria che avvertono il rischio di un legame “sempre più fiduciario con la politica”. “L’amministrazione pubblica – spiega Ferrante – rischia di diventare clientelare per legge e nessuno dice niente”, dice a ilfattoquotidiano.it. “Dopo anni di bocche riempite di “meritocrazia”, di invettive contro stipendi troppo alti e l’invasione della politica nella PA, ci troviamo davanti una riforma che potrebbe arrivare a fare tutto il contrario: la professionalità diventa a chiamata, non solo per ruoli di staff, e la selezione dei dirigenti potrebbe diventare un affare privato”. Sottolineato in rosso: affare privato.

Con conseguenze paradossali e pericolose. “Il testo licenziato espone a enormi rischi di dipendenza della burocrazia dalla politica e di aumento della corruzione, non solo ai massimi vertici, come già accade, ma a tutti i livelli: la politica potrà decidere arbitrariamente il licenziamento dei dirigenti, acquistando un formidabile strumento di pressione e di eliminazione dei soggetti non consenzienti a vantaggio di quelli che obbediscono al potere”. Il riferimento è agli Incalza e gli Odevaine non che – ci tiene a precisare – “non sono funzionari di carriera, ma esterni messi al vertice delle amministrazioni dalla politica, per eseguirne i comandi”.

La riforma – questo il punto – tocca tutto tranne i dirigenti di nomina politica, i cosiddetti “articoli 19 comma 6” della legge del 2001. Si limita a ribadire che “non devono eccedere le soglie previste dalla legge”. E ci mancherebbe. “Ma è curioso che mentre si dice di perseguire un maggior controllo nel rapporto tra burocrazia e politica si creino tutta una serie di paletti e scivoli per la dirigenza di ruolo e nulla sugli Incalza”. Perché i dirigenti di carriera, assunti per concorso, possono resistere alle pressioni illecite e gestire le attività dell’amministrazione secondo la legge. “Domani non sarà più così, potranno essere licenziati per motivi nebulosi che non devono essere neppure oggettivati per essere sostituiti da nominati che sono sempre sotto schiaffo dei partiti e per questo non in grado di garantire la terzietà dell’amministrazione pubblica”.

Questo è il tema dei temi: la possibilità/opportunità di rimozione dei dirigenti pubblici e la loro parziale sostituzione con figure a tempo, esterne. Uno spoils system strisciante che agirebbe su due livelli. Il primo riguarda gli incarichi esterni alla PA cui il decreto Madia, convertito in legge ad agosto, spalanca le porte portando il limite dal 10 al 30% della dotazione organica dei dirigenti di prima fascia per gli enti locali, triplicandola. Consente poi ai sindaci di assumere collaboratori a tempo, retribuendoli come dirigenti, anche senza laurea, che invece serve ai dirigenti interni (su questo inciampò il sindaco Renzi, venendo prosciolto dopo due condanne con una sentenza “innovativa” che manda assolti i politi per manifesta ignoranza della materia).

La delega sulla P.a., che sta per essere esaminata, fa il resto. Introduce a propria volta il “ruolo unico dei dirigenti” eliminando la distinzione in due fasce. Stabilisce quindi che gli incarichi avranno una durata di tre anni, rinnovabili una sola volta senza ripassare per un bando e una selezione. I dirigenti vengono “pescati” di volta in volta per poter assumere incarichi. In assenza di questi ultimi per più di due anni, diventano licenziabili. In una cornice simile, la possibilità, sia pure limitata, di chiamare senza concorso dei dirigenti esterni a tempo, diventa esplosiva e fomenta il dubbio che in questo modo si avvii un ricambio della classe dirigente “infedele”. “I dirigenti di nomina fiduciaria aumenteranno, mentre i posti da dirigente vincitore di concorso diminuiranno – spiega Ferrante -. Chi non riceve un incarico, senza necessità di motivazione, viene espulso e rischia di essere mandato a casa. Abbiamo sempre sostenuto il ruolo unico dei dirigenti come garanzia che la persona giusta vada al posto giusto, evidenziando merito e competenza di ciascuno”.

Ma il meccanismo che si profila è quello della “mancanza di diritto all’incarico”, attraverso un numero di dirigenti maggiore dei posti a regime, arrivando a una espulsione dalla dirigenza di chi – non si sa in base a quali criteri – non riceva un incarico. “Se il conferimento o meno dell’incarico non viene accompagnato da espressa motivazione, ci troveremmo di fronte al concreto rischio di asservimento della dirigenza amministrativa alla politica, in contrasto con quanto previsto agli artt. 97 e 98 della Costituzione”. Con l’epilogo più sorprendente: se rubi da dipendente pubblico ti licenziano, ma puoi fare il dirigente nominato. Da qui la conclusione: “non solo sono provvedimenti illogici e costosi per la spesa pubblica, ma pericolosi per l’imparzialità dell’azione amministrativa a tutela dei cittadini”. E forse non è questa la cura della malattia, ma un’ottima premessa per le recidive.

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