Considerati gli importi, parlare di svolta epocale appare fuori luogo. Tuttavia la decisione del colosso della grande distribuzione statunitense Walmart di alzare lo stipendio dei suoi 1,3 milioni di dipendenti è, per una serie di ragioni, un segnale di grande importanza. Alcuni giorni fa la società ha annunciato che la paga oraria minima salirà dal prossimo aprile dal minimo legale di 7,25 dollari a 9 dollari. E poi, nel 2016, a 10 dollari. Gli aumenti crescono con la qualifica. Dal mese prossimo la retribuzione di un manager di sezione salirà ad esempio da 13 a 15 dollari. Inoltre per i dipendenti dovrebbe diventare più agevole usufruire di permessi e giorni di ferie mentre si dovrebbe ridurre l’estrema flessibilità attuale dei turni.

Il gruppo che ha sede a Bentonville in Arkansas e vale in Borsa circa 270 miliardi di dollari ha una lunga reputazione di tirchieria nei confronti dei suoi dipendenti. Per anni è stato l’emblema del fossato abissale che si stava scavando tra le élites economiche e il resto del paese. A fronte di salari al limite della sussistenza il patrimonio della famiglia Walton che controlla il gruppo viene stimato in 150 miliardi di dollari. L’azienda ha sempre difeso la sua austera politica retributiva con i prezzi ultra competitivi che riusciva a offrire alla clientela. Ma non tutto torna. Non solo i super profitti che nel frattempo la proprietà accumulava ma anche i 2 miliardi di dollari in sussidi pubblici (pagati quindi anche dai clienti Walmart) che si stima vengano distribuiti ogni anno ai dipendenti del gruppo per integrare una busta paga insufficiente.

L’azienda non fa un grande sforzo se si considera che ogni dipendente Walmart genera un fatturato annuo di 183 mila euro e profitti per quasi 6mila a fronte di una busta paga che tenendo già conto degli aumenti supera di poco i 18mila dollari. Ma le conseguenze possono essere importanti. L’aumento dei salari arriva in un momento in cui il tasso di disoccupazione è sceso al 5,5% e diventa quindi più difficile trovare sul mercato lavoratori disposti a lavorare per stipendi da fame o quasi. Viste le dimensioni del gruppo (1,3 milioni di dipendenti) è quasi certo che le sue mosse innescheranno scelte simili nei concorrenti, estendendo gli aumenti a milioni di lavoratori del settore.

Il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman ha accolto con grande soddisfazione la notizia sottolineando, in un editoriale sul New York Times, come la scelta di Walmart abbia una grande valenza simbolica. Chiarisce infatti come la scelta di mantenere i salari su livelli estremamente bassi sia fondamentalmente politica. Contrariamente a quanto sostenuto da una certa corrente del pensiero economico, che vorrebbe i salari affidati unicamente alla legge della domanda e dell’offerta per evitare distorsioni del mercato del lavoro, aumenti moderati di retribuzioni basse avrebbero poco o nessuno effetto sui livelli di occupazione. Lo dimostra anche, spiega Krugman, quanto accaduto negli stati dell’Unione che hanno alzato il salario minimo legale e che non hanno subito alcun peggioramento occupazionale rispetto a quelli confinanti.

Da tempo l’amministrazione di Barack Obama ha messo al centro della sua agenda il rafforzamento economico della classe media, vittima di una progressiva erosione del suo potere d’acquisto iniziata negli anni della presidenza Reagan. Oggi nei portafogli dell’1% più ricco della popolazione statunitense entra il 19,3% del reddito nazionale, un valore più che doppio rispetto agli anni ’70. Nello stesso periodo la remunerazione media dei dirigenti delle maggiori aziende del Paese era pari a 35 volte lo stipendio del lavoratore medio. Oggi è quasi 300 volte tanto. Se davvero al decisione di Walmart innescherà una (piccola) generalizzata diminuzione di questo enorme gap a risentirne positivamente sarà anche il livello complessivo dei consumi. Gli impatti sull’inflazione dovrebbero venire neutralizzati dal calo dei costi energetici legati alla discesa del prezzo del greggio.

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