L’unico tema che avrebbe potuto fare la differenza per il futuro tecnologico del Paese non sarà affrontato. Lo switch off della rete in rame, cioè lo spegnimento nel 2030 della vecchia infrastruttura in capo a Telecom Italia per il passaggio definitivo alla fibra, è stato stralciato dalla discussione del consiglio dei Ministri di martedì 2 marzo. Lo ha assicurato lunedì il sottosegretario alle Telecomunicazioni, Antonello Giacomelli, spiegando che il governo ha “immaginato un piano per stimolare gli investimenti, non il contrario”. Del resto sulla banda ultralarga c’è “molto da fare” e il governo Renzi ha finalmente delineato piani che tracciano “per la prima volta delle scadenze a sette anni, con degli obiettivi fissati al 2020 e milestone intermedie”. Senza però che ci sia qualcuno a controllare che gli investimenti promessi dagli operatori siano realmente realizzati e a comminare salate ammende per eventuali ritardi. Tre, in sostanza, le misure che verranno prese in considerazione: nel piano del governo da 6 miliardi di investimenti ci saranno sgravi fiscali associati a un sistema di voucher o di contributi a fondo perduto a partire dal 2018, la realizzazione del catasto delle reti chiesto da tempo dal M5S e una serie di obiettivi di diffusione dei servizi digitali con il preciso intento di garantire la comunicazione all’interno della pubblica amministrazione.

“Non ci saranno molte sorprese”, ha anticipato Giacomelli. E in effetti la scomparsa dalla discussione della proposta di spegnimento della rete in rame riduce notevolmente la portata del provvedimento del governo Renzi a favore dello sviluppo della banda larga in Italia. A beneficiare del dietrofront dell’esecutivo è l’ex monopolista Telecom Italia e naturalmente i suoi soci: i fondi di investimento statunitensi come Blackrock, ma anche le banche italiane Intesa Sanpaolo e Mediobanca, le assicurazioni Generali, il gruppo spagnolo in uscita Telefonica e soprattutto quello francese in ingresso Vivendi. Quest’ultima, secondo Il Sole 24 Ore, attraverso il suo presidente e primo azionista Vincent Bolloré, secondo socio di Mediobanca, è al lavoro per avvicinare l’ex monopolista transalpino Orange (France Télécom di cui lo Stato francese ha poco più del 26%) a Telecom Italia. Due sono le opzioni sul tavolo: la prima contempla la possibilità che Orange possa rilevare l’8,3% di Telecom che presto sarà nelle mani di Vivendi, la seconda prevede l’ingresso dell’ex monopolista francese nel capitale dell’azienda guidata da Marco Patuano. Entrambe le ipotesi rischiano però di suscitare una levata di scudi contro l’avanzata transalpina e di aprire la strada a una soluzione italiana. Nell’ambito della quale non è escluso l’ingresso in scena di Silvio Berlusconi con la sua Mediaset.

In attesa di novità sul fronte dell’azionariato, Telecom ha comunque incassato lo stop allo spegnimento della rete in rame che avrebbe dato certezza sui tempi della diffusione della fibra in Italia, fanalino di coda del Vecchio Continente. L’ex monopolista italiano potrà quindi continuare a godere del beneficio della proprietà in esclusiva della rete in rame e gestire in base ai suoi tempi gli investimenti in fibra che, nel piano industriale della società al 2018, sono fissati a 5 miliardi di cui appena 500 milioni di euro per coprire a macchia di leopardo 40 città con la fibra fino a casa dell’utente.

Ma davvero il piano di swich off della rete poteva mettere in discussione la sopravvivenza di una società come Telecom Italia? La risposta è “ni”. E’ indubbio che il passaggio a tappe forzate alla fibra ultralarga stabilisce una tabella di marcia accelerata per gli investimenti  rispetto a quella prevista dai manager Telecom e ha quindi un impatto sui futuri numeri del gruppo. Ma soprattutto l’attuale rete di Telecom è a garanzia di un indebitamento netto da 26 miliardi con 1,86 miliardi di interessi passivi che finiscono ogni anno nelle tasche delle banche creditrici. E secondo l’ex presidente Franco Bernabé, interpellato sul tema a margine di un’audizione del 2008, “qualsiasi intervento sugli asset che modifichi strutturalmente il sistema Telecom Italia richiede necessariamente il consenso, l’adesione di tutti i portatori di interesse, quindi gli azionisti, chi ha obbligazioni, quelli che hanno fornito nel corso degli ultimi anni le risorse finanziarie a Telecom Italia per espandersi”. Ma anche le banche che hanno sostenuto le scalate a debito di Roberto Colaninno e di Marco Tronchetti Provera poi scaricate sulla società. E’ indubbio insomma che lo spegnimento della rete in rame nel 2030 provocherebbe pesanti svalutazioni con la necessità di rivedere il rapporto tra l’azienda e i suoi creditori, dove però la prima, vista la mole dei suoi impegni, è in una posizione per definizione di favore, rispetto ai secondi che sarebbero stati i primi svantaggiati dello switch off e, quindi, della svalutazione della loro garanzia.

Sul fronte Telecom, tuttavia, nonostante la prospettiva di pesanti svalutazioni, appare difficile immaginare che lo spegnimento della rete in rame nel 2030 possa spingere sull’orlo del collasso finanziario, senza margini di manovra, l’ex monopolista indebitato. Di sicuro, invece, come sostenuto nella bozza del progetto governativo Ring, che ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare, l’operazione di switch off del rame avrebbe avuto il merito “di rilanciare lo sviluppo nazionale nel settore digitale”. Inoltre è indubbio che, nonostante il fardello del debito, Telecom è ancora in una posizione di forza sul mercato domestico e sul business brasiliano. Prova ne è il fatto che attualmente l’ex monopolista realizza 21,5 miliardi di fatturato con un margine consolidato da 8,7 miliardi. A ottobre, l’utile netto dei nove mesi si avvicinava al miliardo (985 milioni). Ipotizzando che, a bocce ferme, il gruppo avesse la stessa performance fino alla fatidica scadenza del 2030, Telecom potrebbe incassare un utile netto cumulato da circa 15 miliardi. La cifra in questione, assieme ad altri interventi di ristrutturazione come la quotazione degli asset delle torri di trasmissione valorizzati complessivamente 1,5 miliardi, potrebbe essere funzionale al rientro del debito. Non solo. La società potrebbe contemporaneamente portare avanti il piano di investimenti necessari allo sviluppo della fibra (e intascarne i ritorni) in uno scenario di uguaglianza con gli altri operatori all’interno della nuova società delle reti che la Cassa depositi e prestiti di Franco Bassanini vorrebbe sviluppare sul modello di Terna. Insomma, al di là di proiezioni semplicistiche, è evidente che Telecom ha ancora diverse carte da giocare. Anche nel caso di spegnimento del rame.

Ma a Telecom, che aveva già spuntato l’allungamento di sette anni della scadenza sulla vita del rame (inizialmente il progetto Ring prevedeva il passaggio obbligato alla fibra nel 2023), non piace proprio il passaggio a tappe forzate all’era della fibra proposto dal vicesegretario generale della presidenza del Consiglio Raffaele Tiscar. Spolpato negli anni seguiti alla privatizzazione voluta da Romano Prodi, l’ex monopolista si è fermamente opposto all’operazione in nome della difesa degli interessi di mercato. Tanto più perché, secondo ipotesi avanzate ancora da Il Sole 24 Ore, l’ipotesi di switch off del rame era in sostanza uno strumento di pressione dell’esecutivo finalizzato a riportare Telecom sul tavolo della trattativa Metroweb dopo il recente stop legato proprio alle pretese avanzate dall’ex monopolista. Fatto sta che se è vero che il nuovo stallo sullo sviluppo della banda ultralarga va a favore del mercato, non è altrettanto vero che giochi a favore dell’interesse del Paese. Perché gli investimenti privati arriveranno più lentamente rispetto a quanto previsto dal progetto Ring. Di conseguenza anche la qualità del servizio ai cittadini e le prospettive di nuova occupazione, oltre 6mila persone più l’indotto stando al piano del governo, andranno ridimensionate. Certo Telecom, dal canto suo, ha promesso 4mila nuove assunzioni in quattro anni grazie al Jobs Act. “Non è un contentino alla politica”, ha spiegato Patuano agli investitori internazionali riuniti a Londra per la presentazione del piano di investimenti della società. Ma a giudicare da quello che sta accadendo sul tema dello switch off, è difficile pensare che non lo sia. Tanto più che tutti gli attuali dipendenti del gruppo sono in solidarietà da diversi anni, con una parte dei costi a carico dello Stato.

Un indizio su come stanno realmente le cose lo fornirà forse il consiglio di amministrazione di Telecom Italia del 19 marzo che deve esprimersi definitivamente sullo stacco agli azionisti. In caso di risposta affermativa, non ci saranno dubbi: lo switch off negato servirà principalmente a pagare i dividendi agli azionisti, oltre che gli interessi alle banche creditrici. Sullo sfondo resta però anche un altro scenario: l’intero affare della banda larga potrebbe essere funzionale non solo a riscrive il futuro di Telecom, ma anche quello di Mediaset che già oggi è al centro di una battaglia per conquistare le antenne di trasmissione di Rai Way. Il mercato va veloce a differenza delle autorità di vigilanza e dei consigli di amministrazione delle società pubbliche. E presto Renzi potrebbe dover dar conto dei nuovi scenari industriali delle telecom e dei media italiani ai suoi elettori. In un certo senso una risposta l’ha già data quando, nel salotto televisivo di Bruno Vespa lo scorso 3 febbraio, ha dichiarato che le nozze Telecom-Mediaset sono in fin dei conti un’operazione “che non riguarda il governo ma le aziende private”. Ma che purtroppo incide su democrazia e libertà di informazione.

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