Chi, come il sottoscritto, ha l’immeritata possibilità di diffondere il proprio pensiero al di là del bar sotto casa, dovrebbe evitare di scrivere banalità. Eppure i nostri non sono giorni ordinari: sono giorni nei quali le banalità devono essere ripetute spesso, se non altro per contribuire allo sviluppo di una virtù sempre più rara quando si discute di politica monetaria: il buonsenso.

E allora diamoci dentro:

  1. Lo sviluppo del credito dipende dallo sviluppo economico. Immaginiamo un mondo nel quale il reddito pro-capite sia costante nel tempo: in un mondo del genere, semplicemente, non c’è posto per un vero mercato creditizio. Perché? Beh, perché la principale motivazione che di solito induce ad indebitarsi risiede nell’aspettativa di guadagnare di più in futuro e poter rimborsare il debito con reddito aggiuntivo. Se si è, viceversa, privi di tale aspettativa, si tenderà a evitare l’indebitamento, poiché a fronte della comodità di ottenere liquidità immediata si dovrà rinunciare in futuro a quote più che proporzionali (capitale + interessi) del proprio, immutabile, reddito: chi vorrebbe, a meno di emergenze, fare un affare in perdita sin dall’inizio?

  2. Lo sviluppo economico dipende dallo sviluppo tecnologico. Questo è un principio la cui ovvietà impressiona e, tuttavia, viene dimenticato ad ogni puntata de “La Gabbia”. Per comprenderlo meglio immaginiamo di entrare in una macchina del tempo e tornare a fine ottocento, quando la chimica irruppe sulla scena agricola europea: la possibilità di utilizzare additivi chimici per la concimazione dei campi e la protezione delle piante dai parassiti indusse un repentino innalzamento della produttività delle coltivazioni. Sino ad allora, l’unico modo per ottenere una maggior quantità di prodotto era consistita nell’incremento delle superfici coltivate (il capitale) o del numero dei braccianti agricoli (il lavoro); da quel momento, grazie a quel progresso tecnologico, pur a parità di capitale e di lavoro si cominciò d’un balzo a ottenere una quantità di prodotto (e, conseguentemente, di reddito) superiore. E se non fosse andata così? Se per concimare si fosse utilizzato per sempre il letame o, peggio ancora, non fosse mai esistito il fattore “progresso tecnologico”? Beh ci saremmo ritrovati nella situazione che ho brevemente descritto al punto 1): reddito pro-capite e aspettative costanti nel tempo.

  3. Lo sviluppo tecnologico dipende dagli investimenti pubblici. Anche questa è una banalità molto spesso dimenticata, eppure altrettanto fondamentale. Come sa chiunque abbia aperto un libro di storia almeno una volta il progresso tecnologico delle economie moderne è quasi sempre derivato direttamente (ricerca pubblica) o indirettamente (ad es. commesse per la difesa) dalla mano pubblica. In questo senso l’esempio italiano è forse tra i più chiari: nel periodo tra il 1951 e il 1991 il tasso di crescita del reddito italiano è stato pari al 4,5% medio; tra il 1991 e il 2012 è stato pari ad appena l’1,5%. Cos’è cambiato? Nel 1992 cominciò lo smantellamento delle Partecipazioni Statali, la distruzione del primo motore degli investimenti pubblici in Italia, l’abbandono del più potente volano di sviluppo tecnologico e crescita che il nostro Paese abbia mai avuto.

  4. Gli investimenti pubblici si finanziano con il debito pubblico. Attenzione! Questa affermazione potrebbe provocarvi un shock anafilattico causa alimentazione ventennale iperliberista, assimilatela con calma: gli investimenti, in particolare quelli infrastrutturali o ad alto contenuto tecnologico, hanno la singolare caratteristica di produrre benefici nel tempo. Da ciò deriva la necessità di sostenerne il costo ricorrendo a meccanismi di finanziamento pluriennali e dunque, preferibilmente, al debito e non alle imposte che, come noto, hanno cadenza annuale. Una delle riconosciute motivazioni alla base del crollo degli investimenti pubblici in Italia può farsi risalire proprio al “cattivo uso” del debito che – dal 1981 in poi – fece il nostro Paese, abbandonandosi al forsennato inseguimento di tassi d’interesse sempre più alti, a sua volta provocato dal vanesio giochino svalutazione-inflazione allora tanto di moda. La strozzatura forzosa della spesa pubblica e le privatizzazioni un tanto al chilo che ne derivarono a partire dagli anni ’90 in poi (vedi sopra punto 4), fecero il resto.

  5. La politica monetaria deve sostenere il debito pubblico. E qui mi spingo a rammentare un’ovvietà addirittura proibita dallo statuto Bce: il fatto che il debito pubblico sia indispensabile per finanziare investimenti e sviluppo, rende altrettanto indispensabile una politica monetaria che sostenga il debito pubblico, specie nei momenti di crisi di liquidità del settore privato. “Quantitative Easing” (quello della Fed, non quello farlocco propagandato dal Comitato Direttivo di Francoforte) significa proprio questo: banca centrale che acquista titoli del debito-debito che finanzia la spesa pubblica-spesa pubblica che sostiene gli investimenti-investimenti che generano crescita-crescita che “tira” il credito privato e consente alla politica monetaria di ridurre il finanziamento del debito pubblico. Tentare di saltare uno o più di questi passaggi conduce esattamente nel cul-de-sac” dove si è cacciato Mario Draghi: tentare di inondare direttamente il sistema bancario di danaro e ritrovarsi con le aste di liquidità semi-deserte, perché le banche non trovano aziende affidabili (non c’è crescita!) alle quali prestare danaro…

Visto com’è facile? Per fare bene il banchiere centrale basta saper essere banali.

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