A Venezia non ha vinto il Leone d’Oro, ma il Gran Premio della Giuria. Sa Dio quanto il verdetto sia stato sofferto: non solo dagli spettatori, ma anche da un giurato d’eccezione come Tim Roth, che ha strappato il microfono e il protocollo per dire, nel non dire, che lui il Leone l’avrebbe dato a The Look of Silence. C’è da capirlo, Mr. Orange, quel che è passato sugli schermi del Lido e oggi approda in sala è “uno dei documentari più grandi e potenti che siano mai stati girati, un intenso commento alla condizione umana”. Virgolettato di Errol Morris, uno che di doc s’intende come pochi, e se avete visto il precedente The Act of Killing potrete convenire agevolmente: Joshua Oppenheimer ha fatto per l’Indonesia, il cinema del reale e il cinema tout court come nessun’altro, con un passo doppio da antologia. The Act aveva rotto il silenzio sul genocidio di un milione di “comunisti” perpetrato dagli accoliti del generale Suharto tra il 1965 e il ’66, stanando e riprendendo gli aguzzini che furono e ancora governano il Paese; The Look torna al silenzio, il solo che può catalizzare il perdono.

Dal 2005 al 2010 Joshua, americano trapiantato a Copenaghen, filma The Act, “e per tutta la durata del processo Adi mi chiedeva di vedere il materiale che stavamo girando: guardava tutto ciò che riuscivo a mostrargli. Era pietrificato”. Adi e Joshua avevano fatto amicizia, Adi era il fratello di Ramli, una vittima dello sterminio: i suo genitori, la madre “vendicativa” Rohani e il padre oggi ridotto a larva umana Rukun, l’avevano messo al mondo proprio per colmare quel vuoto. Adi è cresciuto così, come la “seconda scelta” di una famiglia di sopravvissuti e infangati, Adi sarebbe divenuto il fulcro del secondo film di Joshua, “in cui saremmo entrati in quegli spazi infestati e avremmo sentito visceralmente cosa significava essere sopravvissuti costretti a vivere lì, a costruire le proprie vite sotto lo sguardo attento degli uomini che avevano assassinato i propri cari rimanendo comunque al potere”. Ecco The Look of Silence, ecco Adi che vede ore e ore del girato di The Act, freme per le colpe che la scuola fa ricadere sui propri figli e vuole: incontrare di persona gli assassini del fratello, guardarli in faccia, poterli perdonare.

Possibile? No, perché quegli assassini non provano alcun rimorso, anzi: rievocano, mimano i carnefici che furono davanti ad Adi, alle proprie mogli, ai propri nipotini, come se nulla fosse. Il campionario mette al tappeto gli stomaci, fruga la banalità del male, stende le coscienze, sì, le nostre: donne sbudellate, intestini srotolati, crani fracassati, peni recisi, sangue delle vittime bevuto per non impazzire dalle troppe esecuzioni, non si vede nulla, ma c’è tutto. Pericolo compreso: nei titoli di coda gli “anonimo” fioccano tra cast e troupe, Adi ha dovuto cambiare villaggio, Oppenheimer in Indonesia non potrà mettere mai più piede. Lo tenga a mente chi crede che il cinema non possa cambiare il mondo, non possa muovere di una virgola lo stato dell’arte: certo, serve un progetto solido, una poetica strenua, e uno sguardo, uno stile che uccide, nel caso, mentre cerca di fare la pace tra vittime e carnefici. Adi è un optometrista, aiuta vecchi e non a mettere a fuoco, e lo fa con manifesta umanità: Joshua è lo stesso, perfeziona la nostra visione, ci squaderna davanti le pagine sporche dell’agenda glocal, perché non le si possa continuare a ignorare. Non lo fa per stupire, ma per informare e formare: la sinestesia, lo sguardo del silenzio, qui non è figura retorica, ma umanista, umanissima. The Look of Oppenheimer. Con Adi Rukum

Silence arriva nelle nostre sale grazie alla piccola I Wonder Pictures, legata al Biografilm Festival: onore al merito. Mentre gli altri distributori mettevano la testa nella sabbia, qualcuno guardava al Cinema.

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