Oggi il Giro ha finalmente un padrone. Si chiama Nairo Quintana. Ha 24 anni, è colombiano, ha un volto antico. Da Inca imperscrutabile, tant’è che qualcuno lo chiama la Sfinge. E’ cresciuto a Combita, a più di 3mila metri d’altezza. E‘ uno sherpa della bici. Con pedalate che a tratti parevano sussulti, ha sbaragliato la concorrenza nel tappone delle grandi salite – il Gavia, lo Stelvio, Val Martello. E’ arrivato solo, dopo aver domato gli ultimi sei tornanti sotto il traguardo, dove la strada s’impennava come un ascensore. Ha stroncato la strenua, cocciuta resistenza del canadese Ryder Hesjedal, vincitore del Giro 2012, che gli era rimasto a ruota sino a un chilometro e mezzo dall’arrivo, dimostrando tempra d’altri tempi.

Nairo ha strappato la maglia rosa al connazionale Rigoberto Uran Uran, rifilandogli qualcosa come 4’11” all’arrivo. Ha ridimensionato le velleità del coetaneo Fabio Aru, il vincitore di Montecampione, appena sesto, a 3’ e 40”. Ha affibbiato distacchi che lasciano ben poche speranze: perché ci sono ancora tre tappe di montagna nei prossimi cinque giorni, “e io sto sempre meglio” ha detto, sia pure tossendo tra una parola e l’altra, ed è sembrata più una minaccia che una constatazione, “non sono arrivato secondo al Tour de France per caso”.

Le arrampicate dei prossimi giorni esalteranno il talento da grimpeur di Quintana, abile nell’amministrare le proprie condizioni di forma e a mimetizzarsi nel gruppo. Era arrivato con qualche problema di salute (influenza e cattiva respirazione). Si è curato in corsa, la prima settimana senza mai dare l’impressione di poter essere protagonista. La seconda settimana ha badato a non perdere terreno, mantenendosi nella parte alta della classifica, compreso il giorno della cronometro tra Barbaresco e Barolo. Negli ultimi tre giorni ha rosicchiato secondi preziosi e significativi a Uran Uran. Il quale ha capito l’antifona. Non ha sprecato energie nell’inseguire il rivale. Ha cercato di limitare i danni: ora è secondo in classifica, a un minuto e 41 secondi. Aru scivola al sesto posto. Cadel Evans resiste al terzo. Quarto, il francese Pierre Rolland che ha marcato stretto Quintana sino a due chilometri dall’arrivo, poi ha ceduto perdendo un minuto e 13 secondi. Come sempre, i numeri del cronometro spiegano le gerarchie. Ma non sempre raccontano quel che è davvero successo durante la tappa.

Già. Perché il trionfo di Quintana è accompagnato da uno strascico di polemiche. Colpa del maltempo. E di un’organizzazione non impeccabile, capace di azzardare la scommessa del Gavia e dello Stelvio, nonostante avvisaglie meteo negative. Incombeva una maligna corrente fredda che rendeva la pioggia gelida: via via che i corridori si avvicinavano al passo dello Stelvio, l’acqua si trasformava in nevischio e salendo in quota si faceva neve. A tre chilometri dal Gran Premio della Montagna, la Cima Coppi di questo Giro, mentre l’abruzzese Dario Cataldo allungava e si avviava a passare per primo alla rispettabile altitudine di 2758 metri, il termometro segnava un inquietante -0,5 gradi, che in bicicletta è come pigliare cazzotti nello stomaco. Il gelo blocca i muscoli, se non sei ben coperto. All’inizio ai corridori si gelano mani e piedi, progressivamente perdono la sensibilità. In salita lo sforzo produce calore, in discesa si può rimanere assiderati se non si protegge il corpo in modo adeguato. Per questo, la prudente organizzazione del Giro provvedeva ad annunciare, tramite Radiocorsa, che in caso di pericolo, lungo la tormentata discesa dello Stelvio, le moto dell’organizzazione l’avrebbero segnalato con una bandierina rossa: non solo il freddo, ma l’eventuale poltiglia che avrebbe potuto rendere problematico l’equilibrio della bicicletta.

La tappa era al limite della sofferenza. I corridori avevano già affrontato il Gavia (m. 2616) sotto la pioggia ghiacciata, Nairo Quintana aveva mandato i suoi a far bagarre: premessa della battaglia sull’ultima micidiale salita della sedicesima tappa. Dietro Cataldo, il gruppo dei migliori procedeva sgranato, con la maglia rosa Rigoberto Uran Uran, Cadel Evans, Fabio Aru, Domenico Pozzovivo, Rafal Majka, Wilco Kelderman, in tutto una dozzina di corridori. Molti di loro avevano deciso di cambiare le mantelline e di proteggersi dal freddo. D’altra parte, le moto con la bandierina rossa, secondo quel che avevano capito i direttori sportivi delle squadre, potevano essere assimilate a delle inedite “safety bike”. Dunque, discesa controllata. Quasi neutralizzata.

Invece, Quinta e pochi altri tirano dritto. Il re degli scalatori attacca…in discesa. Approfitta del cambio di indumenti. Del rallentamento. Il gruppo della maglia rosa si era spezzato, Quintana stava davanti, Uran staccato di una cinquantina di metri. Nairo ha tirato giù, sfruttando equivoci, fraintedimenti, messaggini twitter attribuiti all’organizzazione che accreditavano la tesi della neutralizzazione (“La discesa dello Stelvio è stata neutralizzata a causa delle condizioni meteo”). Tardive, arrivavano le scuse per questo messaggio fallace. Quintana, alla fine della discesa aveva guadagnato un minuto e 55 secondi, limati da Uran di tredici piccoli inutili secondi. La volpe sgusciava via, la muta che l’inseguiva aveva la lingua fuori della bocca. Mancavano gambe e forza: “Non capisco il perché di tutte queste polemiche. Io avevo fatto ricognizione del percorso, immaginavo quali potessero essere le condizioni climatiche, ero preparato. La moto con la bandierina rossa non l’ho vista, ho solo pedalato a tutta. Potevano farlo anche i miei avversari”.

Aru, quando arriva, è onesto nel riconoscere che Quintana ha vinto perché è il più forte, “è stato un giorno duro, estremo; tutto il gruppo è stato immenso, abbiamo corso in condizioni critiche”. Per la cronaca, si sono ritirati appena in sette. Ultimo, l’olandese Jetse Bol, a quattro ore sette minuti e 53 secondi da Quintana.

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