La giornalista francesce 26enne Camille Lepage è stata uccisa in Repubblica Centrafricana, dove stava realizzando un reportage. “Il suo corpo senza vita – ha annunciato una nota del ministero degli Esteri francese nella notte del 13 maggio – è stato ritrovato il giorno seguente a ovest di Bangui dalle forze francesi della missione Sangaris”.

Il suo ultimo tweet risale a una settimana fa: “Ci vorranno otto ore di moto perché qui non ci sono strade”, aveva scritto Camille parlando del viaggio che stava facendo verso un villaggio a circa 60 km a ovest di Bouar, quasi al confine con il Camerun. E’ in quel viaggio, secondo le prime ricostruzioni, che la ragazza si sarebbe ritrovata coinvolta nei combattimenti, rimanendo uccisa. La ventiseienne fotoreporter francese seguiva da due anni la drammatica crisi della Repubblica Centrafricana dove, dal dicembre 2012, il conflitto in corso tra il governo e i ribelli Seleka si è aggravato e la situazione umanitaria, soprattutto in alcune cittadine dell’entroterra, è diventata catastrofica.

“Dovrà essere fatta piena luce sulle circostanze della morte della nostra concittadina”, ha dichiarato il ministro degli Esteri Laurent Fabius aggiungendo che “non ci può essere impunità per quelli che, attraverso i giornalisti, se la prendono con la libertà fondamentale di informare e di essere informati“.

Quella della Lepage è la prima uccisione di una giornalista occidentale impegnata a documentare il conflitto in corso in Repubblica Centrafricana: il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha “condannato fermamente” l’uccisione della giovane reporter francese e ha chiesto alle autorità di svolgere un’inchiesta sull’accaduto. Una dichiarazione unanime dei 15 Paesi membri del Consiglio ricorda che, secondo le norme internazionali, i giornalisti che esercitano la loro professione in zone di conflitto “sono generalmente considerati come dei civili e in quanto tali vanno protetti“.

Nella sua ultima foto postata su Instagram, una settimana fa, Camille mostra alcuni uomini armati in mezzo a una strada rossa, nella nebbia: l’immagine offre un quadro del modo in cui Camille lavorava e del pericolo al quale esponeva se stessa, nel tentativo di documentare i conflitti dimenticati: “Voglio creare empatia con le mie foto – aveva dichiarato – voglio che tutti quelli che le guardano provino vergogna per quei governi che permettono l’accadere di queste cose”. In una recente intervista con il sito web PetaPixel, Camille parlava di quelle storie drammatiche ignorate dai media mainstream: “Non posso accettare che certe tragedie vissute da alcune persone vengano tenute sotto silenzio perché nessuno può farci dei soldi. Così ho deciso di fare da sola, di portarle alla luce, non importa a che prezzo”.

Camille era nata ad Angers, in Francia, si era laureata in giornalismo in Inghilterra e a partire dal 2012 aveva lavorato in Sud Sudan. La Lepage era ancora molto giovane, eppure le sue foto erano state pubblicate nei giornali più importanti del mondo, New York Times compreso. “Ottimista, generosa, instancabile lavoratrice e senza paura”, così la definisce, proprio sul New York Times, Nicholas Kulish, giornalista che aveva avuto modo di lavorare con lei in Sud Sudan. “Un cuore grande – continua Kulish sul quotidiano statunitense – “Voleva essere ovunque e in ogni momento per documentare quanto accadeva, fregandosene del pericolo che incombeva su di lei: il senso del dovere l’aveva spinta, lo scorso anno, ha lasciare il Sud Sudan per sposarsi nella Repubblica Centrafricana, nonostante i pochissimi giornalisti presenti in zona”.

“Cerco di mostrare il lato umano di ogni storia, di mostrare ogni persona che fotografo come se fossero mio fratello e mia sorella”, così parlava del suo lavoro Camille Lepage.

 

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