“Tra i primati alla rovescia di cui possiamo vantarci c’è anche quello di essere i maggiori produttori-consumatori di cemento nel mondo, due-tre volte gli Stati Uniti, il Giappone, l’Unione Sovietica: 800 chili per ogni italiano”. Era il 1991 quando Antonio Cederna in Brandelli d’Italia descriveva la situazione di un Paese irresponsabilmente incapace di rispettare il suo territorio. Da allora le cifre si sono assottigliate, scendono fino a 432 chili di consumo pro capite. Ma sono nettamente al di sopra della media europea, attestata sui 314. La presentazione a Roma del Rapporto annuale sulle Cave di Legambiente offre un quadro aggiornato su un tema che continua a rimanere ai margini della discussione politica. Nonostante la situazione, nella gran parte delle regioni italiane, sia da tempo da bollino rosso.

Le cave attive sono 5.592. Delle quali 674 in Lombardia, 563 in Veneto e 504 in Sicilia. Sono 2.183 i Comuni con almeno una cava presente sul proprio territorio e ben 1.081 Comuni quelli con almeno due. Impressionanti i casi di Sant’Anna di Alfaedo, in provincia di Verona, con 76 cave attive e Bagnolo Piemonte, in provincia di Cuneo, con 70 cave attive. Un ruolo di primo piano spetta anche al Comune di Roma con 32 cave attive sul territorio, quasi tutte concentrate sulle colline situate tra la capitale e il Comune di Fiumicino.

Addirittura 16.045 quelle dismesse e monitorate. Con la Lombardia che guida la classifica con 2.895, seguita dalla Puglia con 2.579 e dal Veneto con 2.075. Sono 1.687 i Comuni italiani con almeno una cava dismessa presente sul proprio territorio, di cui 1.152 quelli con almeno due siti abbandonati. Tra i territori più interessati si trova Isola Vicentina con 142 cave dismesse, quindi Custonaci con 116, e numerosi capoluoghi di provincia come Trento con 91, Roma con 59, Prato con 56 e Perugia con 41. Numero complessivo che non comprende quelle nelle regioni che non hanno un monitoraggio. Come accade in Calabria e Friuli Venezia Giulia. Si procede con le modalità del passato, nonostante la crisi anche del settore edilizio. L’attività estrattiva si è contratta, mantenendosi però a livelli ancora altissimi. Come certificano il miliardo di euro di ricavo, gli 80 milioni di metri cubi di sabbia e ghiaia, i 31,6 milioni di metri cubi di calcare e gli oltre 8,6 milioni di metri cubi di pietre ornamentali estratti nel 2012. L’estrazione di sabbia e ghiaia rappresenta il 62,5% di tutti i materiali cavati in Italia. Ai primi posti Lazio, Lombardia, Piemonte e Puglia con oltre 10 milioni di metri cubi di inerti cavati nel 2012.

A regolare una situazione improntata alla precarietà non contribuisce certo in maniera adeguata lo strumento normativo di riferimento a livello nazionale, costituito dal Regio Decreto del 1927. In molte Regioni, a cui nel 1977 sono stati trasferiti i poteri in materia, i problemi poi sono l’esito di una pianificazione “incerta” e di una gestione delle attività estrattive senza controlli pubblici trasparenti. Particolarmente grave, per le ripercussioni sui territori, la frequente assenza di Piani cava. Che infatti mancano in Abruzzo, Molise, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Sicilia, Calabria e Basilicata, mentre il Veneto è in fase di approvazione. Il caso del Piemonte a parte. Dal momento che ha solamente Piani di indirizzo e rimanda alle Province l’approvazione del Piano cave. Ma più in generale sono le Leggi regionali a mostrarsi inefficaci, oltre che improprie. Anche perché incardinate ad un’idea di Ambiente nel quale il paesaggio sembra assente. Mancando di norme che regolano temi tutt’altro che trascurabili. Come l’esclusione di alcune aree dalle attività, il recupero di quelle nelle quali si è esaurita l’estrazione, il riuso degli inerti provenienti dalle demolizioni edili. Esempi virtuosi già esistono. Al di là dei singoli casi, l’Umbria è una delle regioni che meglio dettaglia le opere di recupero delle aree dismesse. Nella L.R 2 del 2000 è specificato come si devono attuare le azioni di recupero sia durante che in seguito alla conclusione delle coltivazioni.

Diverse le opere pubbliche realizzate con aggregati riciclati. Come, ad esempio, il rilevato autostradale tra Santo Stefano di Magra e Viareggio, e tre banchine del porto di La Spezia e del raccordo autostradale nei pressi della Nuova Fiera di Milano. Dunque da qui sarebbe necessario partire per definire interventi che non possono più essere lasciati alle sensibilità delle amministrazioni locali. Partendo da questi nodi irrisolti si dovrebbe poter costruire un Piano nazionale nel quale gli Enti locali siano attori responsabili. Non disgiunta da queste criticità continua a segnalarsi quella dei canoni di concessione. Finora irrisori a fronte dei grandi guadagni assicurati ai privati. Per questo la proposta di adeguare quelli italiani a quelli della Gran Bretagna, che prevede siano pari almeno al 20% del prezzo di vendita. Per rendersi conto della differenza è sufficiente confrontare gli introiti delle Regioni provenienti dalla vendita di ghiaia e sabbia. Nel sistema vigente é di 34,5 milioni di euro. Mentre secondo quello proposto raggiungerebbe gli oltre 239 milioni. L’Italia, che per decenni ha cementificato spiagge e pianure, abbandonando le aree più interne, inizia a guardare con meno disinteresse al suo paesaggio. Alle tante cesure prodotte senza ragione. Ai tanti sprechi di territorio, avrebbe detto Cederna. 

 

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