Una gara su chi meglio padroneggia i segreti del sesso orale. E’ la notte del 6 febbraio e i profili di Alessandra Moretti, Pd, e Paola Taverna, M5S, infiammano Twitter con un lungo botta e risposta degno di una chat porno. Gli account sono stati hackerati e al mattino entrambe sporgono denuncia, ma la deputata Pd va oltre e annuncia: bisogna regolamentare “quella terra di nessuno che sono i social. Sono la promotrice di una proposta di legge sull’hate speech (incitazione all’odio) in rete”. Per punire le violazioni – spiegano i giuristi – bastano le norme esistenti, ma da anni i politici chiedono e presentano disegni di legge ad hoc. Un anelito all’iper-regolamentazione che allontana l’Italia dai grandi paesi occidentali, nei quali ai reati commessi sul web vengono semplicemente applicati i codici penali, e che è proprio delle democrazie meno mature: senza considerare realtà come Russia e Cina in cui la censura è sistema, leggi speciali sono in vigore in paesi come l’Indonesia e le Filippine. “Ma la cosa da terzo mondo – spiega Giovanni Maria Riccio, docente di Diritto comparato ed europeo della comunicazione all’università di Salerno – è che i politici italiani invocano queste norme ogni volta che uno di loro si sente sbeffeggiato su un social network o un blog. Chiedono cioè delle leggi ad personam”.

UN CORO BIPARTISAN 
La moda è esplosa negli mesi. Il 14 aprile 2013 Laura Boldrini scopre sul profilo Facebook di un giornalista di Latina un fotomontaggio in cui compare nuda. Il 3 maggio, in un’intervista a Repubblica, il presidente della Camera chiedeva misure per “il controllo del web”: servono “decisioni misurate, sensate, efficaci (..). La politica deve agire”. Una richiesta che meritava il plauso del collega al Senato, Piero Grasso: “Le leggi che proteggono dal web… beh, quelle le dobbiamo assolutamente ideare. Ma è un discorso che facevo già da Procuratore Nazionale Antimafia”. Due mesi dopo è il turno del Pdl. Il 3 luglio Mara Carfagna denuncia le minacce ricevute su Facebook (“Ti verremo a prendere a casa”). Occorre “regolamentare il comportamento da tenere in rete”, tuona Maria Stella Gelmini. Nel 2012 era stato addirittura un ministro della Giustizia a chiedere norme ad hoc: ”Occorre regolamentare i blog – spiegava il 26 aprile Paola Severino – questo mondo va regolamentato altrimenti si finisce nell’arbitrio”. Un’allergia che, dal 2° governo Prodi al governo Letta, si è tradotta in una lunga serie di ddl presentati in Parlamento.  

SCORZA: “LE LEGGI ESISTONO GIA'” 
“Eppure gli strumenti per punire gli illeciti commessi sul web, dalla diffamazione all’istigazione a delinquere, sono tutti già previsti nell’ordinamento – spiega Guido Scorza, avvocato, blogger del Fatto e docente di Ricerca in Informatica Giuridica e Diritto delle nuove Tecnologie – tutto ciò che è reato per la stampa, è reato anche su internet. La diffamazione, ad esempio, è regolata dalla legge sulla stampa 47/48 e tutte le fattispecie che riguardano il web sono comprese nella formula ‘… o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità’ del comma terzo dell’articolo 595 del Codice Penale”, che prevede la reclusione da 6 mesi a 3 anni. “Tutti gli altri illeciti che possono essere commessi tramite i media sono previsti dal codice penale”. E il caso del post di Beppe Grillo su Facebook: “Cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina?” che aveva scatenato una marea di commenti a sfondo sessuale? “Grillo è perfettamente identificabile: se si ritiene che la sua condotta configuri reato, lo si può processare”. 

“IL DDL MORETTI? NORME GIA’ PREVISTE” 
Anche molte disposizioni contenute nel ddl Moretti sono già nell’ordinamento. “Il testo prevede maggior tutele per i minori – continua Riccio – già previste dal Codice della Privacy; contempla l’aggiornamento e l’integrazione dei dati personali pubblicati su internet, anche questi diritti già riconosciuti dal diritto all’oblio garantito dallo stesso Codice”. Il testo, poi, modifica la disciplina sulla diffamazione e crea una disparità di trattamento: “Qualora la diffamazione sia commessa a mezzo di una testata telematica registrata – scrive Francesco Paolo Micozzi, avvocato esperto di diritto dell’informatica, su Leggioggi.it – si prevede la sanzione della multa da € 2.000 a € 10.000; nel caso di diffamazione commessa, invece, a mezzo blog la pena è quella della multa da € 1.000 a euro 7.000 aumentata della metà ai sensi del “nuovo” ultimo comma dell’art. 595 ossia da € 1.500 a € 10.500″. Resta poi da capire che senso abbia presentare nuove modifiche al reato di diffamazione proprio mentre il Parlamento ne sta approvando la riforma: il 17 ottobre 2013 la Camera ha detto sì a un ddl che esclude il carcere per i giornalisti, sostituito da multe fino a 60 mila euro, e ora il testo è al Senato.   

SE SI APPLICA LA LEGGE, LE PENE ARRIVANO 
E’ accaduto a Dolores Valandro, la consigliera comunale della Lega a Padova denunciata per istigazione ad atti sessuali compiuti per motivi razziali per aver scritto su Facebook “Mai nessuno che se la stupri” riferendosi al ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge: il 17 luglio 2013 è stata condannata per direttissima a 13 mesi di carcere e 13mila euro di multa. A volte l’applicazione delle norme può causare timori sul futuro della libertà in rete. Con una sentenza 31 dicembre 2012 il Tribunale di Livorno ha condannato per diffamazione aggravata una 27enne che, licenziata dal centro estetico dov’era impiegata, aveva offeso più volte il suo ex datore di lavoro su Facebook.  Il giudice ha richiamato l’articolo 595, terzo comma del codice penale, in cui il reato è punito più severamente quando l’offesa è recata a mezzo stampa o attraverso “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”. Per il giudice, Facebook è una piazza virtuale dalla “diffusione incontrollata”. 

COSA ACCADE ALL’ESTERO: REGNO UNITO 
“Nei paesi occidentali non esiste una legislazione speciale – spiega Giampiero Giacomello, docente dell’università di Bologna e relatore italiano del report Freedom on the Net 2013 – prendiamo la Gran Bretagna: lì esistono severe leggi antiterrorismo che vengono applicate in casi molto rari e seri. Se qualcuno chiedesse di usarle per punire a chi sbeffeggia i politici sul web, gli inglesi si solleverebbero”. Così bastano le leggi ordinarie. Il 24 gennaio 2 ventenni che avevano minacciato di “stupro” una femminista su Twitter sono stati condannati a 12 e 8 settimane di carcere in base al Public Order Act del 1986 e all’Offences Against The Person Actdel 1881. Nel 2012 Liam Stacey, 21 anni, trovò divertente deridere Patrice Muamba, calciatore di colore del Bolton collassato in campo per un attacco di cuore: “Che risate, Muamba! E’ morto!”, scrisse su Twitter. Venne condannato a 2 mesi per incitazione all’odio razziale sotto il Public Order Act 1986 . Nel 2011 era toccato a 2 ventenni che avevano usato Facebook per incitare ai disordini sociali: furono condannati a 4 anni per istigazione a delinquere in base al Serious Crime Act 2007. Era il 6° caso in pochi anni.  

GERMANIA, SI APPLICA IL CODICE PENALE 
In Germania la diffamazione è punita duramente sia dallo Strafgesetzbuch (il codice penale), sia dalle leggi sulla stampa dei vari Lander, con pene che vanno dai 3 mesi ai 2 anni. Si arriva a 5 anni se si danneggia ingiustamente una persona impegnata nella vita politica. Ovviamente le regole sono valide anche sul web. Lo stesso vale per gli altri tipi di reati. Nel 2012 un 18enne incitò su Facebook al linciaggio di un 17enne accusato dell’omicidio di una bambina di 11 anni, Lena, a Emden. In seguito all’appello una folla si presentò con bruttissime intenzioni alla stazione di polizia in cui il sospettato veniva interrogato. Il linciaggio non avvenne, ma l’istigatore fu condannato a 2 settimane di carcere: i giudici tennero conto dell’età, ma per il reato il codice tedesco prevede pene fino a 5 anni. 

FRANCIA, SU FACEBOOK NON C’E’ DIFFAMAZIONE 
Anche in Francia niente leggi speciali, ma nel 2013 il sistema giudiziario ha prodotto due importanti sentenze sulla libertà nei social. Il 10 aprile la Corte di Cassazione ha stabilito che Facebook non è un luogo pubblico come la tv, la radio o un giornale e chi posta opinioni e commenti in bacheca non può essere condannato per diffamazione. Per la Corte, che doveva giudicare il caso di una donna che aveva scritto di voler assistere allo “sterminio di tutte le direttrici come la sua”, la dipendente non può essere accusata di aver ingiuriato il datore di lavoro in pubblico:  la bacheca di FB sarebbe un luogo privato cui solo gli “amici” possono avere accesso. A giugno, poi, il Tribunal de grande instance di Parigi aveva obbligato Twitter a fornire alle autorità i dati degli autori di alcuni tweet antisemiti pubblicati nel 2012: la legge francese proibisce la discriminazione basata su principi religiosi e razziali.  

USA, LA COSTITUZIONE TUTELA ANCHE I “LIKE
Negli Usa la libertà di parola è garantita dal Primo Emendamento e non esistono reati federali a mezzo stampa che comportino il carcere, previsti invece in 17 Stati. Una tutela costituzionale estesa ora anche ai blog. Lo ha stabilito il 18 gennaio la Corte d’Appello: nelle cause per diffamazione i blogger devono essere considerati alla stregua dei giornalisti e non possono essere condannati se danno notizie di interesse pubblico e svolgono il loro lavoro con accuratezza. Il First Emendament protegge anche i “like” su Facebook: lo ha deciso il 18 settembre 2013 la Corte d’Appello del 4° Circuito (in Italia, invece, un uomo di Parma è stato rinviato a giudizio per un “mi piace” ad un commento giudicato diffamatorio e rischia 3 anni). Gli altri reati? Il 14 febbraio 2013, in un’America ancora con i nervi a fior di pelle per l’eccidio di 20 bambini nella scuola Sandy Hook di Newtown, Justin Carter, 19enne texano, scrisse su Facebook: “Ora vado a fare una strage in una scuola piena di bambini, li uccido tutti e divoro i loro cuori ancora pulsanti”. In poche ore il ragazzo è finito in carcere per aver violato l’articolo 22 del Codice penale del Texas: “Minacce terroristiche”. E rischia 10 anni

INDONESIA, LA LEGGE AD HOC: PENE PIU’ ASPRE PER IL WEB 
Le leggi speciali per il web sono proprie di altre latitudini, geografiche e culturali. In Indonesia è in vigore la legge “11/2008 on Electronic Information and Transactions (ITE)”. L’articolo 27 prevede che “chiunque sia trovato colpevole di usare media elettronici, inclusi social network, per intimidire o diffamare rischia fino a 6 anni e una multa fino a un miliardo di rupie” (105.000 dollari). Quando per la diffamazione sui media tradizionali il codice penale prevede pene molto più basse, il che fa sì che chi è soltanto accusato di aver commesso il reato su internet possa essere sottoposto fino a 50 giorni di custodia cautelare. Secondo l’Institute for Policy Research and Advocacy, tra il 2008 e il 2013 sono state processate almeno 37 persone, mentre per il watchdog Information and Communication Technology Watch facendo leva sulla legge il governo ha filtrato e bloccato i contenuti di vari siti considerati scomodi. “Ai nostri governanti non piace l’idea di una rete libera”, ha spiegato a Human Rights Watch Leo Batubara, presidente dell’Indonesia’s Press Council. Non è un caso che la legge sia stata approvata nell’aprile 2008 con i voti dei 3 maggiori partiti del paese. 

FILIPPINE, FINO A 12 ANNI DI CARCERE 
Il 12 settembre 2012 il presidente filippino Benigno Aquino III firma il Cybercrime Prevention Act,  legge nata per combattere la pirateria online che estende alla sfera digitale il reato di diffamazione già previsto dal Codice penale. Il testo innalza drasticamente le pene per chi commette il reato sul web: la pena minima aumenta di 12 volte, passando da 6 mesi a 6 anni; quella massima raddoppia da 6 a 12 anni. L’ammenda può raggiungere i 24 mila dollari e il provvedimento punisce anche i commenti giudicati offensivi sui social network e i “like” di Facebook. 

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