Questo articolo è il terzo di una serie cominciata lo scorso 21 settembre e proseguita così fortunatamente da stimolare addirittura una lettera pubblica da parte dell’Onorevole Giuseppe Stefano Quintarelli (Scelta Civica), interdetto – come noi – per il fatto che nonostante la norma cardine di tale principio sia stata abolita nel 1996 (articolo n. 175 della Legge 633 del 1941), la Siae continui a sbandierare (sul suo sito) la propria “irrinunciabilità” in quelle situazioni che fanno riferimento ad artisti che ad essa non sono associati o decidono di utilizzare brani tra quelli da loro non depositati. Quando decisi di occuparmi della materia, non era tanto perché la cosa potesse aprire un varco attraverso cui far passare volentieri tutti voi, quanto piuttosto perché toccò da vicino una persona a me cara, vittima dell’arroganza e dell’incompetenza di più operatori che, fortuna nostra, lo hanno costretto a cercare da sé le risposte per cui andava vagando: e quando guardo il mio amico nonché socio Andrea Caovini per chiedergli ragguagli sulla vicenda, non ho bisogno neanche di formulare una domanda vera e propria, perché non avevo dubbi circa il fatto che nessuno, in Siae, gli avrebbe mai risposto. C’ho sperato, c’abbiamo sperato: questo sì. Ma vanamente. 

Quel che poteva essere ancora incanalato nel novero di una o più sviste casuali, assume ora i contorni inquietanti di una vicenda ben più ampia e, per certi versi, anche definitiva. Rispetto ai margini che ci eravamo posti mesi fa, possiamo ora dire con certezza che la Siae non va pagata e non può pretendere neanche 1 centesimo nei casi citati in introduzione: può essere interpellata, quello sì, con un’autocertificazione di intenti che ha comunque il sapore del ridicolo e che, tra l’altro, non è obbligatoria quanto piuttosto assume le sembianze di una (vostra) cortesia. Come se – e qua il paragone me lo suggerisce sempre il buon Andrea – prima di mettermi alla guida della mia automobile, dovessi recarmi al comando dei vigili urbani per rassicurarli circa il fatto che non commetterò alcuna infrazione. Come è loro dovere (e potere) contestarmi un eccesso di velocità piuttosto che un divieto di sosta, è onere della Siae vigilare sulla bontà di coloro che si approcciano alla musica, specie dal vivo: così, magari, le tanto famigerate “spese di segreteria” troverebbero un’utilità che altrimenti non ci viene spiegata. Che essa sia in malafede è documentato dal protocollo 2/1346/PS, diramato dalla direzione generale alle sue sedi periferiche e pubblicato anche sul sito dell’Anci: l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani.

Detto questo, passiamo alla “fase 2”: appurato che senza Siae si vive comunque bene, vediamo come farlo.

La principale via di fuga, lo sappiamo, è costituita dalle famigerate licenze Creative Commons (e simili), che, diciamolo subito, non offrono però quel servizio di “marcatura temporale” che costituisce non una prova (altro luogo comune) ma un “indizio” circa la paternità dell’opera. Niente paura: la stessa possibilità è offerta da alcuni siti quali PatamuCopyzero Online et similia: questi non fanno che trascrivere sul file che vorrete proteggere una data di “creazione” e una di “estinzione”, risultato che potete ottenere anche inviandovi una mail con allegato tramite PEC (posta elettronica certificata). In sostanza, utilizzando materiale protetto da licenze CC potete:

– diffondere musica nel vostro esercizio (“uso commerciale”) laddove venga chiarito, negli accordi insiti alla delega, che sono compresi i diritti in questo senso connessi;

– organizzare eventi in cui sia suonata solo musica distribuita tramite CC;

– elargire gratuitamente la stessa musica ad associazioni no profit che, da parte loro, hanno acconsentito in tal senso.

[Rimando, prima di proseguire, alla guida pratica redatta da Simone Aliprandi a riguardo: la trovate qui.] 

Potrebbe poi presto venir meno, anche nel nostro Paese, l’ultimo inattaccabile baluardo, relativo alla raccolta e redistribuzione delle royalty per gli aventi diritto: una decisione del 2008 della Commissione Europea ha di fatto imposto un regime di libera concorrenza anche in questo ambito, quello cioè del “collecting”. L’alternativa in questo caso, per quanto concerne la “musica di ambiente”, è già realtà e si chiama Soundreef: la società fondata a Londra dall’italianissimo Davide D’Atri, nemico giurato dei lucratori del monopolio che, assolutamente sereno rispetto alla sfida che lo attende, arriva a sostenere come “un avente diritto può ricorrere alla tutela di più società di collezione compensi, purché a ognuna affidi la gestione di una categoria diversa di diritti. Il diritto d’autore può essere ‘spacchettato’ e assegnato a intermediari diversi”. 

Se poi voleste invece allietare i locali della vostra attività senza spendere alcunché, potete ricorrere a Jamendo: il più grande catalogo di musica royalty-free al mondo, con tanto di database diviso per categorie di riferimento. La cosa è già realtà in molte parti del mondo, non meno a Roma, dove una gelateria sita nel quartiere Trastevere è riuscita a venere meno all’obbligo di dover pagare pegno pur trasmettendo le creazioni di artisti che non rientrano nella tutela e nella competenza della Siae: i proprietari hanno così intrapreso una trattativa con la società, che è stata costretta ad ammettere come i brani proposti fossero tutti protetti da licenza libera.

Credo si possa dire, senza tema di smentita, che il vizio di fondo di un sistema così ingiusto e collaudato ha comunque prodotto gli anticorpi necessari e, ancor più, numerose alternative: in una fase storica in cui la vita specie dei giovani musicisti, delle band non ancora arrivate ai più si decide sui palchi piuttosto che sugli scaffali dei negozi o in base ai passaggi radiofonici, vista pure la crisi generale dell’editoria (anche musicale), ecco che decidere di ricorrere alla Siae denota, nel 2014, un atto neanche coraggioso ma autolesionista. Se pensiamo che la quota associativa è passata, all’anno, da 90 a 160 euro, capirete bene che dall’altra parte chi avrà deciso di “autogestirsi” avrà vittoria facile: certo non diventerà automaticamente ricco e famoso ma se non altro non si sarà fatto prendere per le corna. Oltre ciò va ricordato come basti saltare un solo pagamento per perdere la “protezione” acquisita magari in anni e anni di versamenti: se siamo iscritti da 5 anni (e abbiamo quindi versato alla Siae la bellezza di 800 euro) e magari per pura dimenticanza ci scordiamo di rinnovare la nostra “disponibilità”, ecco che i tanti soldi spesi acquisiscono definitivamente il sapore della beffa.

Arrivare ad una chiosa diventa cosa ardua, visto quanto detto e lo farò allora rivolgendovi una sola domanda: perché sì? Il primo che risponderà in maniera esaustiva riceverà in cambio un assegno il cui totale ammonta a tutti gli anni in cui non sono stato iscritto alla Siae: cioè 26. Alla prossima: sperando che qualcuno batta un colpo stavolta!

P.s.: le tematiche trattate in questo articolo sono state affrontate anche nel corso di una trasmissione da me condotta, il cui podcast è ascoltabile qui.

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