Salvo rarissimi casi, oggi l’evasione non esiste e la latitanza è, se non impossibile, limitata nel tempo o legata a questioni straordinarie. Scordiamoci i film di genere tipo “Fuga da Alcatraz”. Tutte le energie che un detenuto mette in atto per la naturalissima ricerca della libertà sono canalizzate nei meccanismi “premiali” della legge Gozzini. Si fa di tutto per avere la possibilità di uscire in permesso, in semilibertà, andare ai domiciliari o a lavorare fuori.

Uno dei nostri migliori studenti è stato chiamato nella sala dell’equipe trattamentale. C’erano tutti: direttore col suo vice, comandante della polizia penitenziaria, educatori, psicologo, medico, cappellano. Gli si offriva un “articolo21”, affidamento al lavoro esterno. Il nostro studente, sbalordendo il suo qualificato uditorio, rifiuta l’offerta. E lo fa con estremo garbo: se gli si dice che deve andare, lui si adegua; ma se “lor signori” gli permettono di scegliere, preferisce terminare gli studi. Il lavoro che dovrebbe svolgere, pulizie in un ufficio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è umile e mal pagato. Lo costringerebbe a andare in giro in orari obbligati in una città complicata come Roma, lontano comunque dai suoi affetti, per un’attività che, a suo avviso, non aggiunge nulla allo sviluppo della sua personalità.

Il ragazzo, fuori, si è sempre e solo occupato di spaccio di marijuana. Ha conosciuto lo studio solo in carcere e ha scoperto, facendo paragoni ben fondati, che molto di più delle varie droghe la cultura, la lettura, il sapere possono davvero regalare, a chi riesce ad arricchire il proprio patrimonio di conoscenze, un vero ampliamento degli orizzonti, l’affinamento della percezione, il cambio radicale di prospettiva da cui si guardano le cose del mondo.

Come se non fosse abbastanza sorprendente il caso di un detenuto che rifiuta la libertà (seppur limitata), poche settimane dopo quell’incontro, appena entrato nei termini per la concessione dei benefici, il magistrato di Sorveglianza gli accorda un permesso premio. Non solo con inusitata tempestività, ma scavalcando di botto quello che è il percorso cui normalmente viene assoggettato chi è di fuori Roma: i primi due o tre permessi (si tratta di 45 giorni l’anno) si fanno chiusi ai domiciliari presso le case-famiglia della Caritas. Poi, se tutto va bene e non ci sono infrazioni, gradualmente ci si può avvicinare alla famiglia.

In questo caso il nostro studente detenuto, che non è un potente né è difeso da un principe del foro, può andare direttamente a casa sua: riabbraccia i figli e con la propria donna, che lo ha aspettato per tanti anni, passa giornate e nottate di intenso amore. Tutti vissero felici e contenti? Resta un dubbio: o siamo in presenza di una serie di eventi miracolosi o il soggetto in questione è talmente intelligente da aver raggiunto i suoi obiettivi aggirando tutti gli ostacoli in modo originale e imprevedibile. Altro che Papillon che aspettava l’onda…

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