Barbara De Anna lavora per l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), un’agenzia che, pur non facendo parte del sistema Onu, collabora strettamente con esso, e in condizioni di funzionamento e servizio analoghe a quelle che vigono nel sistema Onu.

Il 24 maggio, Barbara è stata ferita in modo molto serio a Kabul, vittima, secondo quanto riportato dai giornali, di un attacco talebano, nel quale hanno perso la vita quattro persone tra cui un bambino, ed altre tredici, oltre a Barbara, sono rimaste ferite.

Non ci rassicuri la distanza geografica: la distruzione della vita, ovunque essa sia scatenata, riguarda e minaccia necessariamente non solo gli afghani o i militari, funzionari, esperti e cooperanti internazionali, ma anche tutti coloro che cercano la pace in questo mondo perduto, in cui la follia dell’uomo diffonde in sempre nuovi luoghi, con rinnovata intensità criminale, angoscia, dolore, rabbia, odio, paura e violenza, facendo strage di folle di innocenti di ogni paese.

Il ferimento di Barbara, una ragazza come noi, ci fa male, e ci ricorda che sul campo ci sono persone, anche italiane, che rischiano davvero la pelle per migliorare questo mondo, e a volte perdono la vita mentre sono al servizio dell’Onu o delle altre organizzazioni che intervengono per promuovere la pace, la giustizia e lo sviluppo.  

Quali sono le condizioni in cui operano queste persone, che si tratti dei dipendenti delle operazioni di peace keeping, civili come militari, o di funzionari del segretariato o delle varie agenzie e programmi, come l’Oim?

Quale prezzo viene pagato tanto dal personale, come dalle popolazioni stesse dei paesi che accolgono le missioni e le agenzie dell’Onu, e cosa accade quando, in questa interazione tra l’Onu e gli esseri umani, in questi contesti drammatici, qualcuno perde la vita o la salute ?

E cosa accade poi alle famiglie dei caduti, dei feriti, dei malati?

Nel mio post del 21 maggio intitolato L’impunità ai tempi del colera ad Haiti, ho raccontato come l’epidemia di colera ad Haiti, causata dalla contaminazione di un fiume da parte di un contingente Onu di caschi blu portatori della malattia, abbia causato, solo ad Haiti (senza contare le vittime nei paesi circostanti) la morte, finora, poiché la malattia è diventata endemica, di oltre 8.000 persone; ma le Nazioni Unite hanno respinto le richieste di risarcimento di 5.000 vittime del colera, appellandosi alla Convenzione sui privilegi e le immunità dell’Onu.

Nello stesso paese, novantasei funzionari civili, poliziotti e caschi blu dell’operazione di peace keeping MINUSTAH hanno perso la vita nel terremoto del 2010.

Se le vittime Haitiane e le loro famiglie non avranno nulla che possa alleviare almeno in parte la loro sofferenza, cosa ne sarà stato e cosa ne sarà delle famiglie della schiera delle persone che sono cadute e cadono al servizio dell’Onu, ad Haiti e nel mondo, dal 1948 ad oggi, nelle missioni di peace keeping, o servendo altre componenti del sistema Onu o le Ong ?

Che ne è di quanti sono e sono stati vittime di incidenti o malattie, o sono stati gravemente feriti come Barbara?

La storia della famiglia del Capitano Mbaye Diagne, che è stato ucciso il 31 maggio 1994, dopo avere salvato, da solo, oltre seicento persone dalla follia genocida, ci insegna che quelle che seguono sono spesso storie di abbandono, di sofferenza, d’ingiustizia, e di discriminazione tra i vivi e i morti.

Nel frattempo, come esseri umani e come italiani, non possiamo non avere un pensiero speciale per Barbara De Anna e augurarci che riceverà la migliore assistenza possibile in questo momento cosi drammatico e difficile della sua vita.

Ricordiamoci infine anche delle decine di italiani vittime del dovere al servizio dell’Onu, e di quanti portano ancora nella carne e nell’anima le conseguenze del loro pericoloso mestiere.

P.S. Approfondiremo nelle prossime settimane il tema del trattamento che è riservato dall’Onu alle persone che hanno perso la loro vita o la loro salute al suo servizio, e alle loro famiglie: a tal fine, intervisterò a Dakar, nei prossimi giorni, Yacine, Coumba e Cheick, rispettivamente vedova ed orfani del Capitano Mbaye Diagne, che ci racconteranno cos’è stata la loro vita in tutti questi anni, che cosa hanno fatto le Nazioni Unite per loro, e se in generale c’è stato qualcuno a dare una mano alla famiglia di quest’uomo generoso e altruista, un Giusto al servizio dell’Onu.

Articolo Precedente

Parigi, militare accoltellato alla gola alla Defense. “Ferite gravi, ma non è in pericolo”

next
Articolo Successivo

Argentina, sospetti sulla morte di Videla. “Negate le cure mediche”

next