“Questo non è amore”. Si intitola così il volume, edito da Marsilio editori e scritto dalle autrici del blog de Il Corriere della Sera “La 27esima ora”, che racconta la storia di 20 donne in lotta con una quotidianità fatta di botte, gelosia feroce, soprusi, ferimenti, stupri. Violenze compiute dal compagno, dall’amante, dal marito. Dall’uomo che ci si ritrova accanto o che si tenta di lasciare e che trasforma la vita in un inferno, stroncandola: come è successo a Veronica, ammazzata a 19 anni dall’ex fidanzato con un colpo alla testa. Un femminicidio compiuto nel 2006 da un allievo della Guardia di Finanza. Un insospettabile. “Non c’era stato nessun segno: dopo essere stato lasciato per 7 mesi non l’aveva mai chiamata”, racconta la madre di Veronica che non si dà pace e che ogni giorno trascorre ore interminabili “nella cappella con le pareti di vetro”, dove è sepolta la figlia.

Dimenticare è impossibile anche per Elena, violentata per anni da un marito-orco che costringeva i figli a guardare e che una sera le ha quasi spaccato la testa contro un calorifero. “C’era sangue dappertutto. Mi ricordo solo che la piccola gridava: mamma non morire, ti prego. E io credevo che ci avrebbe ammazzati tutti”. Anche Sara ha rischiato di essere uccisa dal compagno. Botte su botte che diventavano ancora più forti a causa dell’astinenza da cocaina. “Una vigilia di Natale è entrato in casa con un manganello nero, come quello delle guardie. Ha iniziato a darmelo sulle gambe, era un dolore tremendo”. Quando ha cercato di ribellarsi lui le ha distrutto la vita.

Storie che parlano di violenze costruite nei giorni, lente e inesorabili, oppure improvvise, raccolte in un volume realizzato con il contributo di centri antiviolenza, avvocate e psicologhe, nato dall’urgenza di capire perché in Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa per mano di un uomo. Le protagoniste hanno nomi inventati. Tutte tranne una: Ileana Zacchetti, assessore alle Politiche sociali e alle Pari opportunità del Comune di Opera, nel milanese: “L’ho fatto per andare fino in fondo. Per le mie due figlie. E per senso di responsabilità nei confronti del mio ruolo di amministratrice”.

Come spiega Barbara Spinelli, avvocato Cedaw e promotrice della Convenzione “No more!” contro il femminicidio, nel contributo che segue le storie in presa diretta (oltre al suo anche quelli di Lea Melandri, Anna Costanza Baldry e Fabio Roia), “quando parliamo di femminicidio raccontiamo di donne che avevano scelto la libertà (da un marito soffocante, da un fidanzato geloso, da un padre padrone, da un trafficante o uno sfruttatore; dalla norma della sessualità maschile, amando un’altra donna) e che, per questa scelta, sono state punite dai “loro” uomini, con la morte. Ma raccontiamo anche di donne che sono sopravvissute a questa violenza, portandosi addosso ferite, a volte fisicamente invalidanti, molto spesso invisibili, che impediscono loro di ricominciare a vivere con pienezza”.

Difficile, leggendo questi racconti, trattenere dal chiedersi: perché sono così tante le donne che non denunciano? Perché quelle che lo fanno ci mettono anni? “Perché in Italia sono insufficienti i posti letto nelle case rifugio, perché i tempi per avere misure cautelari sono lentissimi, perché c’è la sensazione che le forze dell’ordine, la magistratura, gli avvocati non siano in grado di percepire il rischio connesso alla permanenza in una relazione di minaccia e di controllo costante”, scrive Spinelli. E non si tratta di semplici sensazioni. Infatti, pur essendoci leggi adeguate non vengono applicate. E questo per colpa dei pregiudizi di genere, “quell’idea stereotipata che abbiamo della famiglia, delle relazioni affettive, sessuali e genitoriali che, se sommata all’assenza di formazione professionale sulle dinamiche della violenza e sui metodi di valutazione del rischio, influenzano medici, avvocati, forze dell’ordine, magistrati, assistenti sociali”.

Colpevoli di questa situazione anche molti giornalisti con i loro racconti falsati sulle cause di questa violenza, descritta come raptus anche quando è stata preceduta da numerose denunce, e i politici “che evitano di prendere una posizione netta nel riconoscere i dati relativi alla discriminazione di genere subita dalle donne, anche di quella “invisibile” che avviene nel mondo del lavoro e nell’accesso ai diritti sessuali e riproduttivi”.

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