Ci sono cose in cui, in teoria sarei d’accordo. E’ giusto che un bimbo abbia una mamma e un papà? Certo. E via la filippica: necessità di una figura paterna, di quella materna, il delicato equilibrio tra due figure, la possibilità (in caso di lite tra genitori) di rivolgersi almeno a uno dei due. Ecceteraeccetera.

Poi c’è la pratica.

Harare, capitale dello Zimbabwe. Quartiere Crash.

Sono vecchie case popolari (palazzoni che somigliano incredibilmente a quelli che vedi in periferia di una metropoli russa), abbandonate e poi occupate dalle famiglie più povere.

Il concetto di “più povero” in Zimbabwe è difficile da definire.

Immaginate venti, trenta persone, dai pochi mesi di vita ai quarant’anni d’età – considerati “gli anziani”-  in stanze da dieci metri quadrate. Piccole finestre, tipo quelle delle prigioni, poche coperte buttate a terra, un unico bagno (un buco nel pavimento) per ogni piano. Odore insopportabile di urina, bruciato, immondizia.

Non ci si entra al Crash. O meglio: puoi entrarci, non è detto tu ne esca.

L’unica volta che ci sono stato, mi hanno accompagnato un fotografo cubano, un prete africano e una guida locale. Mi hanno presentato come un dottore. Avevo una telecamera nascosta: non mandammo nulla in onda di quello che avevamo girato. Era davvero troppo.

Mi dissero: “Qui morire è la cosa migliore che possa capitarti”.

Al Crash c’è anche una scuola orfanotrofio.

Quando entri, come in tutte le scuole italiane, c’è un attaccapanni che è stato regalato da alcuni falegnami italiani. C’è un solo giacchino (un misero straccio) appeso. E dire che, ad Harare, può fare davvero freddo. Ti aspettano una cinquantina di facce dalla pelle nera. L’effetto (dal sole fuori al buio dentro) è una secchiata di sorrisi bianchissimi.

Sono lì. Ti guardano. Che fai? Giochi, che puoi fare.

Balli. Canti. Ascolti le loro canzoni. Arriva il momento di salutarli. Quello che ti ha tenuto la mano per tutto il tempo che sei stato lì, ti accompagna fino al cancello.

Lo saluti. Lui ti dice qualcosa.

“Non capisco la tua lingua, piccolo”.

Interviene la traduttrice:  “Ti ha chiesto perché non può venire via con te”.

Qualcuno può dirmi – in maniera convinta – che quel bambino non stia meglio in qualsiasi altro posto del mondo? Adottato da una coppia di gay, di lesbiche, da un single (uomo o donna, poco importa).  

Come ci si può definire “esseri umani” e accettare che questi bambini rimangano lì, soli, piuttosto che sotto un tetto, amati, cazzo, amati, che è quello che un bambino chiede.

E non sta lì a domandarsi se chi lo ama è uno, due, uomo o donna.

I bambini orfani sono orfani del mondo. Sono figli di tutti. Sono i nostri figli. Sono i figli che vorrebbero amare potenziali genitori.

Perché un conto è la teoria, un altro la pratica.

Articolo Precedente

Laicità e legge 40: meno male che l’Europa (a volte) c’è

next
Articolo Successivo

Cittadinanza, seconde generazioni di “ritorno” nella terra della Lega

next