L’uomo, che poteva diventare Papa, non divideva il mondo in credenti e non-credenti ma in pensanti e non-pensanti. Aveva il dono dell’intelligenza, della fede, dell’umiltà e il coraggio della ricerca. Radicato nella Bibbia e al tempo stesso sensibile ai valori della modernità, esortava i credenti a misurarsi con la “libertà individuale e sociale, la democrazia, l’autonomia della ricerca come libertà dell’intelligenza individuale”. C’è stato un tempo, raccontava, in cui aveva sognato una “Chiesa nella povertà e nell’umiltà, che non dipende dalle potenze di questo mondo. Una Chiesa che concede spazio alla gente che pensa più in là. Una Chiesa che dà coraggio, specialmente a chi si sente piccolo o peccatore. Una Chiesa giovane”.

Oggi, confessava dopo avere varcato l’ottantina, “non ho più di questi sogni… ho deciso di pregare per la Chiesa”. A Dio domandava di non essere lasciato solo, a Gesù avrebbe voluto chiedere nel momento del trapasso “se mi ama nonostante le mie debolezze e i miei errori e se mi viene a prendere nella morte, se mi accoglierà”.

È morto, rifiutando l’accanimento terapeutico, respingendo l’idea di un corpo mantenuto artificialmente in esistenza dalla tecnologia. D’altronde, con il chirurgo cattolico e parlamentare Pd Ignazio Marino, il cardinale aveva affrontato il tema delicato della morte non procurata, ma accettata naturalmente come rifiuto del dominio della macchina sul corpo. Casi come quello di Welby, ammonì, saranno sempre più frequenti e bisognerà riflettere come trattarli. Si trattasse del testamento biologico o della comprensione per i rapporti omosessuali – lui ammetteva il “valore di un’amicizia duratura e fedele tra due persone dello stesso sesso” – si trattasse di un nuovo approccio alla fecondazione artificiale o del ruolo della donna nella Chiesa o delle coppie di fatto o della collegialità come espressione della partecipazione dei vescovi del mondo al governo della Chiesa universale, Martini irritava spesso le gerarchie ufficiali con i suoi interventi pensosi e quindi scomodi.

Poteva diventare pontefice per le sue qualità e il vasto credito di cui godeva nel mondo cattolico e tra le Chiese cristiane. Un credito, che andava ben al di là dei confini confessionali, favorito dalla grande stima che gli portavano anche ebrei e musulmani e non credenti. Ma al conclave del 2005 Martini arrivò già piegato dal Parkinson e la Chiesa cattolica non poteva permettersi due pontefici malati di seguito. In ogni caso Martini appariva troppo riformista per un conclave, che si stava orientando su una linea di difesa identitaria del cattolicesimo. Non avrebbe avuto i voti necessari. Sicché alla fine invitò i suoi seguaci a votare per Joseph Ratzinger.

Uomo di Chiesa, il porporato è stato in maniera “laica” estremamente partecipe alle convulsioni italiane. Politicamente, negli anni del berlusconismo trionfante, non si potrà scordare il suo tacito, ma chiaro contrapporsi alla linea di attivismo politico del cardinale Camillo Ruini, allora presidente della Cei. Non amava il clericalismo a copertura di fazioni politiche.

L’arcivescovo di Milano aveva il costume di intervenire periodicamente e con grande insistenza sui temi della legalità, della giustizia e della democrazia minacciata dagli interessi privati, perorando la causa di una politica per il bene comune. Contro il leghismo becero parlava di rispetto e accoglienza degli immigrati. Contro la tendenza a frantumare il Paese parlava di solidarietà. I suoi discorsi per la festa di Sant’Ambrogio era campanelli d’allarme contro il degrado del Paese. Di “Mani pulite”, evento esploso nella sua diocesi, diceva che aveva insegnato che la “disonestà non paga mai. Prima o poi si arriva a un’esplosione. Tutte le forme di appropriazione del bene pubblico, coperte o subdole, non possono durare a lungo”.

Giovanni Paolo II lo aveva lanciato, spingendo lo studioso biblista ad assumere nel 1979 la carica impegnativa di arcivescovo di Milano e facendolo cardinale nel 1983. Giovanni Paolo II lo ridimensionò. Non piaceva a Wojtyla la tranquilla carica riformista di Martini, che pure stimava. Wojtyla non accettava che la visione di Chiesa, di cui Martini era tenace portatore, potesse diventare un modello alternativo alla sua linea. Perciò, quando l’arcivescovo di Milano diventò troppo influente come presidente del Consiglio delle conferenze episcopali (cattoliche) europee, Giovanni Paolo II fece cambiare lo statuto dell’organizzazione, imponendo che potesse guidarla solo il presidente di un episcopato nazionale. Così Martini dovette lasciare il posto nel 1993. Ma il cardinale non era personalità da scoraggiarsi. Nel 1999 – durante il Sinodo internazionale dei vescovi convocato da Wojtyla per analizzare l’Europa dopo la caduta del Muro di Berlino – l’arcivescovo di Milano sorprese i suoi confratelli evocando un “sogno”. Il sogno di un nuovo Concilio, che avesse il coraggio di discutere dei problemi più spinosi: l’“ecclesiologia di comunione del Vaticano II”, la carenza già drammatica di sacerdoti, la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, il tema della sessualità, la disciplina cattolica del matrimonio, l’ecumenismo e i rapporti con le “Chiese sorelle dell’Ortodossia”.

Un agenda cruciale, che papa Wojtyla ieri e papa Ratzinger oggi non hanno mai voluto affrontare.

Qualche anno prima, rifacendosi espressamente all’enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint sul ripensamento della funzione dei pontefici, il cardinale aveva proposto di “rimodellare” in senso ecumenico il primato papale alla luce dell’autonomie delle diverse Chiese cristiane. “Si potrebbe – mi disse in un colloquio – iniziare in modo semplice. Con una consultazione di tutte le comunità cristiane convocate dal Papa… Un tavolo in cui si affrontino i grandi problemi dell’ umanità per trovare una linea di azione al servizio dell’ uomo”. Martini era una miniera di idee riformatrici. O meglio aveva il coraggio di esprimere ciò che tanti nel mondo cattolico pensano di nascosto o avvolgono in scritti specialistici. Ma non era un esibizionista del riformismo. Era profondamente convinto del valore essenziale della preghiera, dello studio, della meditazione. A Milano creò la “cattedra dei non credenti” per dialogare con la cultura contemporanea, ma istituì anche un giorno della settimana in cattedrale dedicato al “silenzio”, affinché i giovani dell’era del chiacchiericcio imparassero a calarsi nel proprio intimo. Via maestra per incontrare Dio.

Dei suoi tanti scritti e interventi rimane viva l’idea di un Concilio fecondo di nuove riforme . E che il fatto cristiano non si misura sul suo successo di massa, ma sulla capacità di testimonianza. “La domanda è: viviamo autenticamente il Vangelo?”. Pensosamente amava sottolineare: “Non puoi rendere cattolico Dio… certamente gli uomini hanno bisogno di regole e confini… ma Dio ha il cuore sempre più largo”.

Da Il Fatto Quotidiano del 1 settembre 2012

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