Nabeel Rajab è il presidente del Centro per i diritti umani del Bahrain e il direttore del Centro per i diritti umani del Golfo. È un difensore dei diritti umani di prestigio internazionale ma, suo malgrado, è diventato il nemico n. 1 dello sceicco Hamad bin ‘Issa Al Khalifa, il re del piccolo stato del Golfo Persico.

Il 9 luglio la quinta sezione del tribunale di primo grado della capitale Manama l’ha condannato a 90 giorni di carcere (21 dei quali già scontati) per diffamazione. Rajab, che non si era presentato in aula, è stato arrestato tre ore dopo a casa da otto agenti scortati dall’alto da un elicottero. Il processo d’appello, previsto mercoledì scorso, è stato rinviato a domani.

Il “reato” per il quale è stato condannato è quello di “aver diffamato pubblicamente la popolazione di al-Muharraq e di averne messo in discussione il patriottismo con vergognose affermazioni utilizzate sui social network”. Al-Muharraq è un centro del Bahrain settentrionale. Il 2 giugno, Rajab aveva postato un tweet indirizzato al primo ministro, lo sceicco Khalifa Bin Salman Al Khalifa, che aveva appena visitato al-Muharraq, in cui scriveva che la folla che lo aveva accolto plaudendo e osannandolo era stata pagata. Il tweet si chiudeva con la domanda: “Quando esci di scena?”

Alcuni ligi abitanti di al-Muharraq avevano sporto denuncia contro Rajab, sentendosi diffamati dalle sue parole. Arrestato il 6 giugno, era stato rilasciato su cauzione il 27 in attesa del processo.

Contro Rajab ci sono altri tre processi in corso: per “riunione illegale” e “disturbo all’ordine pubblico” relativi a una manifestazione di febbraio; sempre per “riunione illegale”, ma stavolta per una manifestazione di giugno; e per “offesa a un’istituzione nazionale”, ossia un altro tweet rivolto al ministro dell’Interno.

Al di là della persecuzione giudiziaria nei confronti di Rajab, in Bahrain le violazioni dei diritti umani restano diffuse, persistenti e gravi.

Violazioni che erano state confermate, lo scorso novembre, dal rapporto conclusivo della Commissione indipendente d’inchiesta nominata dal re cinque mesi prima. Il rapporto, impietoso, aveva stabilito che erano state commesse gravi violazioni dei diritti umani (tra cui uso eccessivo della forza contro i manifestanti, torture massicce, processi iniqui e uccisioni illegali) nei confronti dei promotori e dei partecipanti alle proteste, avviate nel febbraio 2011 per chiedere riforme democratiche e la fine della discriminazione e dell’emarginazione politica ai danni della maggioranza sciita.

Da allora, nonostante le promesse del re di tener conto delle raccomandazioni della Commissione, la situazione non è cambiata. Ogni volta che l’opposizione scende in piazza, la polizia spara pallini da caccia contro i manifestanti (come in Egitto, molti sono stati colpiti agli occhi, con lesioni anche permanenti alla vista) e asfissia l’aria coi gas lacrimogeni. E non li lancia solo in aria.

Un candelotto ha centrato il 27 giugno, Zainab al-Khawaja, attivista e figlia di un altro noto difensore dei diritti umani, Abdulhadi al-Khawaja (protagonista nella prima parte di quest’anno di uno sciopero della fame durato oltre tre mesi): risultato, una frattura e 17 punti di sutura ad una gamba.

Il governo reale rifiuta di rilasciare decine di prigionieri di coscienza, condannati a lunghe pene detentive per reati di opinione. Neanche un mese fa il ministro dell’Interno, lo sceicco generale Rashid bin Abdullah Al Khalifa, in una visita ufficiale a Londra, ha dichiarato che in carcere ci sono soltanto “persone che hanno commesso azioni punibili dalla legge”. 
Non risulta che alcun rappresentante del governo della Gran Bretagna (che, con quello degli Usa, è il più stretto protettore del Bahrain) abbia battuto ciglio.

Di fronte all’assenza di significative concessioni da parte della famiglia reale, parte dell’opposizione tende a radicalizzarsi. Il rischio è che si radicalizzi ulteriormente anche la repressione, già aspra, e che le voci dei difensori dei diritti umani come Nabeel Rajab trovino ancora meno spazio.

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