Sono le undici e un quarto del mattino di sabato e il marciapiede è ricoperto di neve, tutto a Roma è ricoperto di neve, le macchine, gli alberi, le strade. Passano due signore tossendo e ansimando. Una delle due ha un paio di scarponi da montagna, sguardo da intenditrice; l’altra arranca con due bacchette da sci, ha una pelliccia di fauna selvatica, occhiali a specchio, un cappello che sembra da aviatore giapponese. In mezzo alla strada ci sono i bambini che giocano a palle di neve, un signore sui sessanta che porta a spasso un cane magro e grigio e intanto scatta fotografie agli alberi.

Svolto l’angolo della strada e mi avvio verso la parte più animata del quartiere. Mentre avanzo, incontro facce adirate, signore che incedono con passo da ritirata dalla campagna di Russia, persone che parlano con tono di voce più alto del normale. Passo accanto a un cassonetto, è circondato da sacchi della spazzatura, immagino che i mezzi per la raccolta dei rifiuti oggi siano rimasti nei depositi, e invece avvicinandomi un po’ di più mi accorgo che il cassonetto è vuoto. La spiegazione forse è che la neve – evento insolito a Roma – ha creato un clima generalizzato di anarchia, una specie di sospensione di ogni norma di comportamento civile.

Arrivo in fondo alla via, sotto i portici vedo una fila di persone in attesa. Laggiù c’è una piccola rampa di una ventina di metri che porta all’ingresso del supermercato. Quasi non riesco a crederci, tutta quella gente vestita in maniera sommaria sta facendo la fila per entrare al supermercato. Mi avvicino e guardo con un po’ di attenzione, nella fila c’è perfino un tizio che impugna uno slittino primi novecento. I fortunati che escono dalla porta del supermercato spingono enormi carrelli carichi di spesa, sfilano davanti a quelli in attesa con facce perfide di soddisfazione.

Scatto una foto col cellulare e mi allontano. Cinquanta metri più in là succede qualcosa di peggio, c’è una giovane donna con un carrello stracolmo che ferma un signore sconsolato. Il signore ha appena desistito dal fare la fila. La donna lo attira verso di sé, a bassa voce gli domanda se abbia bisogno di qualcosa, gli dice che nell’eventualità avrebbe da vendergli pacchi di pasta, zucchero, olio, perfino della frutta. Il signore, più che sbalordito, sembra stralunato, nell’epoca e nel punto di mondo in cui si trova non avrebbe mai immaginato di imbattersi in qualcuno che fa la borsa nera. Neppure io, del resto. Perciò decido che posso anche andarmene a casa.

Nel pomeriggio però esco di nuovo, voglio tornare a vedere com’è la situazione al supermercato. La fila non c’è più. Entro. La scena che mi si presenta davanti agli occhi sembra la materializzazione di quello straziante, post-apocalittico, incubo descritto da Cormac McCarthy nel romanzo La strada. Intere file di scaffali vuoti, tappeti di uova rotte, qualcuno che ancora si attarda a fare razzie di pancarré. C’è una signora che arraffa pile elettriche, suo marito le chiede: “Che ce ne facciamo?”. E lei che lo fredda con uno sguardo da invasata: “Stai zitto, possono tornarci utili”. Mentre passo accanto ai fruscii e ai grugniti di due uomini che si azzuffano per l’ultima confezione sulla terra di tonno in scatola, penso che non ci siano piani di emergenza che possano aiutare questa città ad affrontare la neve. Forse sarebbe più utile uno psicanalista.

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