La rivoluzione arancione non è finita. Lo fa capire chiaramente il suo “comandante”, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia cui sei mesi fa è riuscito il vero miracolo: strappare il capoluogo lombardo alle forze della destra contro ogni pronostico, far cadere il berlusconismo nel suo luogo di nascita, dimostrare sul campo che il riformismo è possibile, se si restituisce la parola ai cittadini-elettori sottraendo terreno alla logica spartitoria che è l’esercizio quotidiano dei partiti. Eppure, se in Lombardia il vento continua a soffiare, a Napoli l’onda lunga delle elezioni di giugno sembra pericolosamente aver perso la propria forza. Con il sindaco Luigi De Magistris pericolosamente arenato sulle secche delle troppe polemiche.

E dunque la ripartenza, arriva da Milano. Con Pisapia che in un’intervista a Repubblica oggi lancia il guanto di sfida al Pirellone, roccaforte della destra moderata e affarista segnata da scandali e inchieste. “Mi sembra evidente – dice Pisapia rivolto a Roma – che il modello Milano, quello che si è realizzato con la mia elezione, non può rimanere confinato alla città. L’ipotesi di elezioni in Regione, che sembrava molto vicina fino a qualche settimana fa, forse ora si allontana, ma il centrosinistra, sia a livello nazionale che locale, deve già mettersi in moto per essere pronto al momento giusto”.

Non c’è segnale più esplicito ai naviganti: la rivoluzione arancione, a sei mesi dalla sua manifestazione più forte, è viva e dà ancora segnali di vita. Eppure le incrinature non sono mancate e non mancheranno. A cominciare dalla polemica sulla nomina di Bruno Tabacci al Bilancio, lo strappo con Stefano Boeri sull’Expo faticosamente ricucito. E poi la polemica in arrivo sul passaggio dal vituperato Ecopass all’inedita area C. Fino alle voci poco gradite di imposizioni politiche ‘democratiche’ sulla nomina dell’assessore Pierfrancesco Maran, e l’odiato aumento dei biglietti del tram. Non c’è passo compiuto a palazzo Marino che non sia anche un possibile passo falso.

Eppure ciononostante c’è chi crede che l’onda di Pisapia possa arrivare fino alla Capitale. I grandi elettori della prima ora su questo si dividono. Il costituzionalista Valerio Onida, ad esempio, non lo esclude affatto ipotizzando perfino un ruolo per Pisapia in un futuro governo di centrosinistra mentre il giornalista-conduttore Gad Lerner lo esclude a priori, sostenendo che il sindaco di Milano si accontenterà di essere ricordato come l’uomo della democrazia recuperata cui è riuscita l’impresa di riportare il riformismo nella capitale morale del Paese, ricucendo lo strappo di Tangentopoli che ha sepolto le forze socialiste, la sinistra migliorista del Pci, quella cattolica e tutte le forze civili che avevano caratterizzato l’evoluzione di Milano per tutto il Dopoguerra.

Il concerto di Natale che torna in piazza Duomo dopo cinque anni è stato un segno del cambiamento di Milano e un messaggio di continuità di quella rivoluzione. La piazza si è riempita (quasi) come il giorno della vittoria di Pisapia solo sei mesi prima. Cosa è stata allora la rivoluzione arancione? Perché quel treno sembra che si sia fermato a Milano, Napoli e Cagliari? Non potrebbe essere ancora la strada maestra per un’alternativa nazionale del centro sinistra e per archiviare il governo dei tecnici che ha confiscato la politica?

Per rispondere bisogna distogliere lo sguardo da Roma, dove permane la fase di sospensione del governo Monti e riportarla a Milano. Qui, infatti, c’è la matrice originaria del cambiamento.

Milano ha fatto da battistrada a un bisogno di rinnovamento insieme alle altre amministrazioni di Cagliari e Napoli. “Ma Milano – insiste Gad Lerner – era un laboratorio politico molto più significativo: era il generarsi dell’antidoto al berlusconismo nel luogo in cui la patologia si era creata. Per questo è stata vissuta come un’esperienza molto intensa, come un’energia positiva che era possibile percepire contro i codici tradizionali della politica”. Che nella società milanese, ormai da decenni, contemplavano i vincoli di alcuni luoghi comuni e cioè che la città potesse essere governata soltanto attraverso i suoi ceti medi-moderati; che l’establishment che deteneva il potere politico, economico e culturale (dal Corriere della Sera a Mediobanca) che già era sceso pesantemente a compromessi con Berlusconi si sarebbe strenuamente opposto al cambiamento. “Insomma, che soltanto da lì potesse venire un’alternativa. Invece è venuta da altrove: dalle periferie, dalla cultura di sinistra e poi ha conquistato il centro”. E così il 30 maggio del 2011 Pisapia ha sovvertito non solo i pronostici ma una concezione della politica che si è rivelata d’un colpo antiquata, anacronistica, e che descriveva Milano come una società per sua natura tendente a destra, caratterizzata da moderatismo e da un rigetto delle culture solidaristiche, disattenta e disinteressata alla giustizia sociale.

Come sia andata dal giorno dopo è storia nota. Pisapia ha aperto il bilancio e ci ha trovato un buco lasciato dalla Moratti. Un vuoto di cassa tale da condizionare ogni scelta e costringere chi lo ereditava a imporre una politica di sacrifici che sembra “di destra”. “Pisapia ha fatto scelte dolorose come l’aumento del biglietto del tram, la vendita della Sea, la difficile eredità di misure antismog solo di facciata ma inefficaci”, aggiunge Onida. Ma qui la cosa si fa politicamente interessante, perché c’è una parte della città che, a sinistra, critica la nuova amministrazione dalla quale si aspettava maggiore discontinuità: “A Milano – risponde Lerner – chi ha il bastone del comando è la sinistra che ha poi accettato e cerca compromessi quando si cala nel concreto delle scelte, l’Expo, le tasse, la pratica della real politik. Finora però nessuno ha potuto accusare Pisapia di compromessi discutibili sul piano morale, di malapolitica. Su trasparenza e rettitudine delle scelte la percezione che ci sia stata una svolta resta, anche dopo le scelte impopolari”. Un recente sondaggio pubblicato dal Corriere del Sera, del resto, conferma la tenuta del consenso anche dopo queste misure. Segno che la difficoltà è stata compresa dai cittadini. Ma una cosa va detta: “Quella di Pisapia è una politica di destra ma che ti puoi permettere, perché è necessaria, e solo dopo che hai issato la bandiera arancione o rossa su Palazzo Marino, dopo che hai creato le condizioni con cui la sinistra può trattare con la borghesia dei salotti, il centro moderato, da una posizione di forza e non più di subalternità come è stato in tutti questi anni”. E quindi c’è il messaggio che ancora lo stesso Pisapia lancia a Roma, passando per la sfida più vicina e cioè riportare il Pirellone fuori dall’era geologica formigoniana e poi – chissà – portare la bandiera arancione al cuore della politica nazionale. La rivoluzione si coltiva, si costruisce.

“Lo snodo resta la legge elettorale e il referendum sul Mattarellum che Pisapia ha sostenuto a Milano e non c’è dubbio che indichi la strada di una contendibilità della leadership attraverso un processo democratico”, insiste Onida. “A Milano – aggiunge Lerner – la Rivoluzione Arancione è stato un grande esperimento di democrazia pratica, realizzata, in un paese sempre meno democratico, in cui la politica appariva ormai confiscata da vecchi schemi nei quali anche il Pd nella logica penatiana immagina il potere come una consorteria che devi spartirti nella logica dei rapporti di forza e l’unica chance di competere era ricorrere a figure “moderate” che non rappresentano i valori della sinistra e la sua storia ma sono il compromesso che fai in anticipo in una logica di subalternità, di fronte a tutto questo Milano e la Rivoluzione Arancione hanno rappresentato un esperimento di democrazia realizzata”.

Certo da Roma non arrivano segnali in questa direzione. L’assemblea nazionale del Pd è rinviata nella generale sospensione del governo di emergenza nazionale dei tecnici e neppure di primarie si parla più, la riforma delle legge elettorale chiesta a gran voce con referendum non è più all’ordine del giorno come lo spred o le misure salva-Italia. “La scala nazionale è più difficile perché stratifica incrostazioni dei gruppi dirigenti dei partiti che perpetuano il loro istinto di autoconservazione delle leadership interne. L’unica chance per il Pd di avere un grande futuro è aprirsi a questa contendibilità per cui chi lealmente ha un progetto, dei valori, e li testimonia attraverso la propria biografia, può lanciare la sfida. Ma noi sappiamo da Milano, Napoli e Cagliari che se resta tutto fermo e se non coinvolgi nelle scelte i cittadini la svolta non ci sarà mai”.

L’anno appena iniziato dovrà portare l’Italia verso un governo di compiuta democrazia e quelle esperienze del 2011, ormai passate alla storia come rivoluzione arancione, sono il poco di autentico e credibile sul quale edificare questo futuro. “E’ un capitale più solido e più vero di quello che può spendere ad esempio la Lega con il federalismo”, chiosa Onida, facendo eco a una frase di Pisapia sulle prossima sfida regionale: “Il centrosinistra deve confrontarsi e gareggiare presentando un nome — scelto con le primarie se non c’è condivisione dice Pisapia — una coalizione e un programma che può vincere, in Regione come nelle altre amministrazioni locali lombarde dove quest’anno si voterà. Esattamente come a Milano: anche qui la vittoria sembrava impossibile, invece ce l’abbiamo fatta”. Un messaggio chiaro che si trasmette a Roma: la rivoluzione arancione è viva.

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