In un Paese in cui nessuno ammette mai di aver sbagliato, la scarcerazione dei condannati definitivi per la strage di via D’Amelio è una buona notizia. E non solo perché escono di prigione delle persone con tutta probabilità innocenti.

La decisione di ieri dei giudici di Catania dimostra infatti che in Italia la magistratura sa ritornare sui suoi passi. E che tra le toghe c’è chi è disposto a mettere in discussione apparati investigativi, scelte e sentenze di colleghi, certezze che sembravano ormai consolidate. È però paradossale che tutto questo, a partire dalla scarcerazione dei condannati per errore, avvenga di fatto contro la volontà di un governo abituato a definirsi garantista.

Gli accadimenti sono noti. L’inchiesta della Procura di Caltanissetta, che ha portato alla scoperta dei depistaggi avvenuti intorno alla prima indagine sull’omicidio di Paolo Borsellino e della scorta, nasce dalle parole di Gaspare Spatuzza. È lui che si autoaccusa di aver avuto un ruolo operativo nei preparativi della strage; è lui che fornisce i primi riscontri dimostrando di aver realmente rubato la Fiat 126 poi imbottita di tritolo; è lui che racconta quel che sa sul ruolo dei suoi superiori diretti, i fratelli Graviano, boss del quartiere palermitano di Brancaccio. Ma a Spatuzza il governo ha sempre fatto la guerra. Il ministero degli Interni ha premuto e ottenuto perché gli fosse negato il programma di protezione. E non ha cambiato parere nemmeno quando Vincenzo Scarantino (uno dei pochissimi falsi pentiti della nostra storia giudiziaria) ha finito per dargli ragione, confessando di aver raccontato (sotto dettatura) un sacco di bugie. Menzogne a tutto tondo in virtù delle quali era stato condannato chi, con la strage, non c’entrava per niente.

È ovvio. Nei prossimi mesi sarà giusto discutere e analizzare i molti motivi che nei primi processi avevano portato i magistrati (diversi da quelli di adesso) a considerare Scarantino credibile, quando una serie di procure, a partire da quella di Palermo, avevano persino rinunciato ad ascoltarlo. Ma è anche giusto continuare a chiedersi perché il governo Berlusconi tema così tanto le dichiarazioni di Spatuzza. L’ex braccio destro dei Graviano non è certo il primo pentito ad aver parlato di rapporti tra il premier, Marcello Dell’Utri e Cosa Nostra. E non è nemmeno il primo ad aver ricostruito i retroscena di un presunto patto politico-mafioso stretto all’indomani delle stragi. Eppure contro di lui il fuoco di sbarramento è totale. Tanto da far pensare che per Palazzo Chigi il vero problema non siano le parole di Spatuzza, ma il silenzio, sempre più assordante, dei suoi ex capi: i Graviano, ultimi anelli di una catena di omertà che ora rischia davvero di spezzarsi.

Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2011

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