Quanto torni a casa, picchia tua moglie: tu non sai perché le dai, ma lei potrebbe sapere perché le prende. Nel frattempo, sforzati di costruire una relazione più stabile con le amanti”. Queste, in soldoni, le minacce contenute nello schema di regolamento in materia di tutela del diritto d’autore, approvato da AGCOM, a braccetto con i produttori di contenuti multimediali, lo scorso 6 luglio.

Il testo parte da una premessa che infonde speranza: operare “nel rispetto dei diritti e delle libertà di espressione del pensiero, di commento, critica e discussione”, escludendo nel contempo dalla regolamentazione gli scambi di contenuti che avvengano direttamente tra gli utenti, come ad esempio le reti peer to peer. Fedele a questa impostazione, l’articolo 6 esclude dalla procedibilità quei contenuti diffusi nei limiti delle eccezioni previste agli articoli  65 e 70 della Legge sul diritto d’autore.

Prima stranezza: all’articolo 65 della Legge sul diritto d’autore internet non viene neppure nominata (neppure come integrazione successiva al 1941).  Si dice solo che gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso possono essere diffusi esplicitamente su “riviste o giornali, anche radiotelevisivi”, a patto che la loro riproduzione non sia stata “espressamente riservata”. Dunque, giacché qui si parla di internet, a voler essere pignoli non stiamo escludendo un gran ché dall’ambito di applicazione dello schema di regolamento Agcom. Tra l’altro, a peggiorare la situazione, la maggior parte degli articoli dei giornali recano chiaramente la dicitura “riproduzione riservata”. Di internet si parla solamente all’articolo 70 della Legge sul diritto d’autore, ma solo per consentire l’utilizzo parziale delle opere protette da copyright nell’esclusivo ambito di utilizzo didattico o scientifico, peraltro demandando ad un successivo decreto ministeriale la definizione di cosa si intenda per “uso didattico o scientifico”. Dunque le eccezioni dichiarate all’interno dell’articolo 6 dello schema di regolamento Agcom, a voler ben guardare, rappresentano più che altro una manifestazione di buona volontà che lascia il tempo che trova. All’articolo 10 l’Agcom specifica quali siano i criteri di valutazione dei predetti articoli 65 e 70 ma ribadendone sostanzialmente la stessa terminologia, solo specificando con maggiore enfasi che l’utilizzo del materiale protetto non deve avere finalità commerciali né scopo di lucro.  Si attende ancora che qualcuno chiarisca cosa si intenda per scopo di lucro, dato che solitamente i contenuti pubblicati sulla rete internet sono accompagnati dalla presenza di banner pubblicitari che nella maggior parte dei casi non rendono che pochi spiccioli. Qual è il confine che separa il mero rimborso spese dal lucro? In assenza di tale netta demarcazione, siamo tutti a rischio. Con il famigerato Decreto Romani, quantomeno, si è stabilito che le web-tv che fatturano meno di 100mila euro l’anno (pura utopia per il 99,99% dei blogger italiani che si accontenterebbero di guadagnare un trentesimo o un quarantesimo) non sono soggette alle disposizioni normate dal recepimento italiano della direttiva AVMSD. Sarebbe cosa buona e giusta tirare una riga anche in questo caso e stabilire definitivamente cosa si intende per scopo di lucro.

Cosa succede, dunque, nel caso in cui un produttore di contenuti verifichi l’utilizzo illecito di un suo contenuto all’interno, supponiamo, di un video caricato su YouTube? Fa una segnalazione (notice and take down) al fornitore del servizio di media audiovisivo (YouTube), che è un soggetto ben distinto dall’uploader (colui che ha caricato il video). A questo punto YouTube (o il gestore del vostro blog, se stiamo parlando di materiale contenuto in un post, o voi stessi se avete direttamente in gestione la piattaforma) dovrebbe, “ove possibile, darne notizia all’uploader, il quale ha la facoltà di presentare le proprio controdeduzioni” (articolo 6, comma 2). Cosa implica quell’“ove possibile”? Che se non è possibile, il fornitore del servizio di media audiovisivo ha facoltà di provvedere alla rimozione del contenuto senza darne notizia all’uploader. E del resto YouTube come potrebbe notificare a un suo utente che un video del suo profilo è stato oggetto di una notifica di tipo “notice and take down”? Naturalmente per email, ma poiché non sussiste obbligo alcuno all’utilizzo di un servizio di posta certificata nei rapporti tra YouTube e i suoi utenti, ne consegue che la segnalazione è aleatoria e che quell’”ove possibile” significa molto più probabilmente un lugubre “mai”. Tanto più che l’uploader ha solo quattro giorni di tempo per presentare le prove che lo scagionano dall’avere infranto le leggi sul copyright. Cosa è probabile che faccia il fornitore del servizio di media audiovisivo o il gestore del sito che riceve una notifica di violazione copyright per un contenuto caricato da terzi, considerata la scarsa probabilità di avere una risposta in tempi così stretti dall’uploader e, soprattutto, considerata l’entità della sanzione economica in cui incorre se, alla fine del procedimento, non rispetterà l’eventuale richiesta di rimozione finale? Già, perché all’articolo 15, comma 2, si dice chiaramente che la multa comminata a chi non ottempera alle disposizioni dell’Autorità è regolata dall’articolo 1, comma 31, della legge 31 luglio 1997, n. 249. Parliamo di una cifra che va da 20 milioni delle vecchie lire a 500 milioni, ovvero da circa 10mila a 250mila euro. E’ evidente che la quasi totalità dei contenuti oggetto di notifica verranno rimossi senza attendere le eventuali controdeduzioni dell’uploader. E che ciò sia possibile è confermato dal comma 1 dell’articolo 7, il quale norma la procedura di opposizione alla rimozione selettiva (“rimozione selettiva” ricorda tanto le bombe intelligenti).  E’ lì che si dice che l’uploader, ove ritenga che il contenuto sia stato rimosso ingiustificatamente, può presentare le sue controdeduzioni (counter notice). E’ ovvio che se nelle intenzioni dell’Agcom il contenuto non avesse potesse essere rimosso prima che all’uploader fosse concessa la possibilità di difendersi, questo comma non avrebbe avuto senso. Una volta che il coraggioso e piccolo Davide abbia presentato a Golia-YouTube le sue controdeduzioni, quest’ultima avrà quattro giorni per ripristinare il contenuto rimosso, garantendosi così che la procedura verrà portata dal detentore del copyright dinnanzi all’Agcom per l’apertura dell’istruttoria, con il rischio dei famigerati 250mila euro di cui sopra. Pensate che esista un solo fornitore di servizi di media audiovisivi che sia tanto incosciente e scavezzacollo da ripristinare un contenuto oggetto di contestazione, se non sarà la stessa Agcom a disporlo al termine di tutta la procedura? No: non son siete così ingenui, lo so.

E così siamo arrivati al punto in cui il nostro contenuto, dopo una segnalazione di notice and take down, per non saper né leggere né scrivere è stato rimosso da YouTube. Facciamo pure finta che siamo stati così fortunati da essercene accorti entro quattro giorni, nonostante una semplice email abbia ottime probabilità di essere letta e processata in un tempo significativamente maggiore, e abbiamo inviato una bella counter notice, alla quale il nostro fornitore di servizi media audiovisivi ha prevedibilmente risposto facendo spallucce. Non ci resta che rivolgerci all’Agcom per ottenere giustizia e fare ripristinare il nostro contenuto multimediale. A partire dalla scadenza dei quattro giorni, abbiamo dunque sette giorni per investire della questione l’Autorità, la quale entra in una fase di pre-istruttoria, ove sostanzialmente verifica la procedibilità. Tale fase non ha alcun vincolo di durata, e dunque può essere lunga a piacere. Se per caso abbiamo segnalato la nostra counter notice oltre il termine dei quattro giorni, siamo fregati e il nostro contenuto è perduto per sempre. Altrimenti l’Autorità invia agli attori una notifica di apertura dell’istruttoria vera e propria. A questo punto sono passati almeno 4 + 7 = 11 giorni. E’ vero che i 7 giorni dipendono da noi, ma non avendo la fase di pre-istruttoria una durata massima, è più probabile che quegli 11 giorni diventino 20 piuttosto che si riducano a 10.

L’istruttoria, fortunatamente, una durata massima ce l’ha: 35 giorni. La Direzione si prende 20 giorni e poi trasmette le sue decisioni all’organo collegiale (articolo 11, comma 5), L’organo collegiale ha facoltà di allungare il procedimento di ulteriori 15 giorni per richiedere lo svolgimento di nuovi approfondimenti. Dopo un massimo di 35 giorni, dunque l’Agcom assume un provvedimento definitivo e lo trasmette al fornitore di servizi di media audiovisivi o radiofonici (YouTube), il quale deve adeguarsi a quanto disposto. Quanto tempo ha YouTube (o il gestore del sito) per adeguarsi? Non è precisato, dunque aggiungiamo un altro punto di domanda alla nostra agenda dei tempi.

Se dunque un nostro contenuto multimediale dovesse venire illegittimamente segnalato come lesivo dei diritti d’autore di qualcuno che ne faccia segnalazione, con tutta probabilità dovremo subire l’ingiustizia di vedere il nostro contenuto sparire dalla rete per un tempo che può abbondantemente superare i 2 mesi. Questo risulta dalla somma delle varie fasi così come illustrate in precedenza, ovvero 11 + ? + 35 + ? = 46 + ? = 60 giorni di buio ad essere discretamente ottimisti. Stiamo parlando di due mesi, sempre che riusciamo ad accorgercene e ad espletare le procedure burocratiche in tempo, e sempre che l’Autorità ci dica bene e disponga il ripristino del contenuto. Due mesi nei quali potremmo essere costretti a subire l’ingiustizia della rimozione di un contenuto, la quale si traduce in un danno economico, morale e biologico (il fegato che mi faccio nell’essere costretto a subire la prepotenza di una Mediaset qualsiasi che paga eserciti di lavoratori dediti alla segnalazione di contenuti multimediali, resi vulnerabili dall’assenza di una legge chiara sul fair use, che facciano uso anche di pochi secondi di telegiornale).

Perché non si vieta che la rimozione di un contenuto possa avvenire prima di avere ricevuto le controdeduzioni dell’uploader, imponendo strumenti di notifica più efficaci di una semplice email? Altrimenti, sarebbe come se io e il mio vicino di casa litigassimo per il possesso di una bicicletta e io avessi il diritto di requisirgliela prima che lui abbia anche soltanto potuto provare a difendersi. Da cosa deriverebbe questo privilegio che l’industria dei contenuti può vantare nel disporre del mio lavoro e della mia fatica, costringendomi ad un inseguimento affannoso?

E se il sito è registrato all’estero? Peggio che andar di notte, perché se il soggetto è attivo in Italia (e per esempio, chi può sostenere che YouTube non lo sia?), “l’organo collegiale può ordinare al fruitore di servizi di media audiovisivi o radiofonici […] la cessazione della trasmissione o della ritrasmissione di programmi audiovisivi diffusi in violazione delle norme sul diritto d’autore” (articolo 14). Il tutto senza passare dal via, ovvero senza la procedura burocratica così come è stata descritta più sopra.

Insomma, l’Agcom è come quel marito che, nel tornare a casa, ogni sera picchia sua moglie presupponendo che lei abbia qualcosa da nascondere, prima di ricevere qualunque giustificazione (proverbialmente parlando, si intende: in nessun caso è ammissibile che moglie e marito si picchino vicendevolmente). O, se volete, l’Autorità assume su di sé il ruolo dei Precog di Minority Report, che vedevano i crimini prima che venissero commessi e inviavano le forze dell’ordine ad arrestare i colpevoli, per impedire che si macchiassero di un reato.

Ma c’è di più: l’Agcom pretende di creare un canale preferenziale addirittura con le amanti. La prima parte dello schema di regolamento infatti è dedicata allo sviluppo e alla promozione dell’offerta legale. Sostanzialmente, gli articoli 3, 4 e 5 descrivono la costituzione di un tavolo tecnico che, tra gli altri obiettivi, al punto e) del comma 2 dell’articolo 4 prevede la “promozione di accordi tra operatori volti a semplificare la filiera di distribuzione dei contenuti digitali in ordine alle nuove modalità di fruizione favorendo l’accesso ai contenuti premium”. Senonché al tavolo tecnico partecipano, oltre ai rappresentanti dei produttori di contenuti multimediali, anche i fornitori di servizi. Questi ultimi sono definiti dallo schema di regolamento come l’insieme dei fornitori di servizi di media audiovisivi o radiofonici e dei prestatori di servizi, intesi come i fornitori di servizi di mere conduit, di caching o di hosting. Insomma, tra i prestatori di servizi, possono trovare una sedia sia i motori di ricerca che gli internet service provider, oltre naturalmente ai fornitori di servizi di hosting (le società che affittano o vendono server e banda grazie ai quali batte il cuore dei siti web). Cosa c’è di male? E’ presto detto: mai sentito parlare di Neutralità della Rete? E’ un principio fondamentale che afferma la neutralità del mezzo di trasmissione, ivi inclusi le infrastrutture di rete e i servizi software che consentono di navigare e trovare i contenuti, rispetto ai contenuti stessi. “All bits are created equals” (tutti i bit sono creati uguali) afferma il teorema più importante alla base della teoria della cosiddetta Net Neutrality. Significa per esempio che internet resterà il più grande spazio di libertà mai conquistato nell’ambito del principio della libertà di parola dalle moderne democrazie, solo fintantoché gli scritti o i video creati dall’ultimo dei cittadini connessi alla rete avranno la stessa identica possibilità di essere trovati e consultati rispetto ai contenuti creati dalla più grande delle multinazionali. Consentire all’industria dei contenuti di avvalersi di canali privilegiati, vuoi per l’avere contrattato posizioni di rilievo nei risultati dei motori di ricerca o all’interno dei widget inclusi nelle internet-tv, vuoi per l’avere a disposizione quantità di banda larga riservate a discapito degli user generated content (i cosiddetti UGC) apre la porta a conseguenze disastrose e irrimediabili nel principio di uguaglianza che attualmente la rete ancora garantisce.

In America le corporation multimediali stanno cercando da lungo tempo di creare abbonamenti diversificati a internet, che in base al prezzo mensile corrisposto consentirebbero agli utenti una navigazione controllata e ristretta ai soli siti web accessibili secondo il pacchetto prescelto. In Turchia 40mila persone sono scese in piazza il 15 maggio scorso per scongiurare la creazione da parte di una commissione governativa equiparabile all’Agcom (la BTK) di una internet suddivisa per fasce (standard, famiglia, bambini…) che dovrebbe entrare in vigore il 22 agosto p.v. L’elenco dei siti web raggiungibili da ogni fascia sarà creato e gestito segretamente dalla BTK ed ogni famiglia sarà costretta a decidere a quale pacchetto aderire. Ovvie le implicazioni a livello di censura che tale evoluzione oscurantista determina quando viene meno il principio della Neutralità della Rete. Pensate a cosa succederebbe in Italia se, a quei trenta milioni di cittadini che ancora non sono connessi alla rete, gli Internet Service Provider offrissero un abbonamento semi-gratuito dove è possibile navigare solo sui siti istituzionali, su quelli dei principali quotidiani nonché delle televisioni nazionali. Resterebbero in pochi, specialmente in tempi di crisi, ad avere la consapevolezza della necessità di dover pagare un prezzo più elevato per avere accesso a tutti i siti web, comprese le fonti di informazione alternative, pur di scongiurare il rischio di replicare il sostanziale monopolio dell’informazione che si è determinato dall’invenzione della televisione in poi.

Lo stesso accadrebbe se i motori di ricerca permettessero di trovare con estrema facilità solo i contenuti che l’Agcom definisce premium, relegando tutti quelli prodotti in piena autonomia da milioni di cittadini qualunque, il cui contributo al pubblico dibattito è però un efficace anticorpo a tutela della conquista democratica, ad un sostanziale anonimato (perché quello che non compare nella prima pagina di Google, è brutto dirlo, per i più non esiste). Lo stesso accadrebbe, parimenti, se gli internet service provider o i gestori dei siti web riservassero il 90% della banda al transito dei contenuti multimediali premium verso le case degli utenti, rendendo estremamente noioso se non quasi impossibile il download di un video prodotto da un cittadino qualunque, ottenendo l’effetto in di incentivare sì, i contenuti premium, dissuadendo però nel contempo i navigatori dalla visione di fonti di informazione alternative. Ecco: il tavolo tecnico che l’Agcom sta predisponendo accoglierà esattamente questi attori al fine di trovare un accordo per favorire i contenuti premium. C’è da dubitare che si preoccuperanno eccessivamente della Neutralità della Rete, a meno che non siamo noi a esercitare sufficienti pressioni per ricordargliene l’importanza.

Io non voglio una internet di contenuti premium, ma casomai una internet di contenuti premiati che si conquistano da sé una maggiore visibilità grazie all’apprezzamento spontaneo e democratico dei cittadini digitali, grazie al passaparola e grazie ai meccanismi di condivisione. Che già ci sono e che funzionano bene.

Il privilegio riservato ai contenuti migliori e le liste dei buoni e dei cattivi (articolo 3, comma 1) lasciamoli ad altri paradigmi di società bocciati dal tempo e dalla storia.

p.s. Qui un video esaustivo sulla lunga, triste storia degli attacchi alla rete nel nostro paese.

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