Tredici luglio 2010: trecento presunti affiliati alla ‘ndrangheta finiscono in carcere. Più della metà vivono e fanno affari in riva al Naviglio. Quel giorno le prime agenzie di stampa battono la notizia all’alba. Nel pomeriggio il quadro è già chiaro: in Lombardia opera un vero e proprio mandamento della mafia calabrese. Con un capo e molti luogotenenti. I giorni che seguono chiariscono lo scenario. “Siamo almeno 500 cristiani e almeno venti locali”. Un vero esercito che da anni ha lanciato un’opa mafiosa al potere economico e politico della regione più ricca d’Italia.

Un anno dopo la maxi-operazione, quelle 160 persone sono finite alla sbarra. Centodiciannove hanno chiesto il rito abbreviato. E per loro, l’8 luglio scorso, il magistrato della Dda Alessandra Dolci ha chiesto quasi mille anni di carcere. Unico escluso, l’ex assessore provinciale Antonio Oliverio per il quale l’accusa ha proposta al gup l’assoluzione.

Il resto della storia sta in 500 faldoni depositati alla procura di Milano. Migliaia di pagine che dicono moltissimo. Eppure non tutto ancora è stato raccontato. Particolari e spigolature stanno tra le pieghe delle decine d’informative della polizia giudiziaria. Una di queste inquieta e non poco. A rivelarla lo stesso magistrato durante la sua requisitoria. In sostanza ciò che si capisce, leggendo la trascrizione dell’intervento in aula, è l’esistenza di una giurisdizione mafiosa che anche nella ricca Padania in molti casi si sostituisce allo Stato. Un brutto cortocircuito ben conosciuto in Calabria o in Sicilia. E che, però, diventa notizia se si verifica nella regione che più di altre, negli anni, ha fatto di tutto per negare la presenza del fenomeno. Ci aveva pensato negli anni Ottanta l’allora sindaco socialista Paolo Pillitteri: “La Piovra? – disse – E’ solo una bella fiction”. Ha replicato poco più di un anno fa il prefetto Gian Valerio Lombardi: “A Milano – ha esordito davanti alla Commissione parlamentare – la mafia non esiste”.

“Un alone di cattiva fama che circonda i nostri imputati”. Ecco da dove nasce la giurisdizione delle cosche. Prima conseguenza: “L’atteggiamento omertoso dei cittadini”. Di più: l’amicizia o la conoscenza con certe persone dà tranquillità, rassicura perché promette una protezione che spesso lo Stato non è in grado di fornire.

Anche in Lombardia la ‘ndrangheta scambia favori con favori. Ottenendo accessi privilegiati, ad esempio, nel mondo bancario troppo spesso blindato al normale cittadino. Esemplare, in questo senso, la vicenda che riguarda V.R. funzionario della Hydro Alpe Adria Bank di Erba che ha stretto rapporti con alcuni boss locali. Chi? Pasquale Varca e Francesco Crivaro. Il contatto privilegiato è Crivaro. “Avevo raccolto informazioni negative sul suo conto – racconta V. R. – sia sul piano finanziario che sul piano morale”. Fino al suo arresto, Crivaro ha gestito, grazie ad alcuni prestanomi, la discoteca Coconut a Eupilio. Sarà lui a mettere in contatto il funzionario di banca con il boss. Motivo: Pasquale Varca ha bisogno di 10mila euro. Nulla di più semplice: il funzionario tira fuori il denaro dai suoi conti personali. “L’ho fatto – dice al pm – per fare un favore a Crivaro”. Che, ricordiamolo, “è persona di dubbia moralità”. Di più: “Crivaro – racconta V.R. – in alcune circostanze ha esternato frasi sul conto di Varca, lasciando intendere che fosse legato alla criminalità organizzata”. In realtà Crivaro è esplicito: “Questo è il capo mafia di Erba”. Chiosa il pm. “Quindi linee di credito per Crivaro nonostante non offrisse alcuna garanzia e prestiti a Varca”. Tutto gratis? Affatto. Perché il funzionario chiede a Crivaro di riscuotere del denaro da una certa Laura. “Mi sono rivolto a lui – racconta – conoscendo le sue prerogative e confidando nelle sue capacità dialettiche di convincimento”. E cosa risponde Crivaro? Che del caso se ne occuperà il capo mafia. A questo punto s’impone la domanda: perché tanta disponibilità del funzionario di banca (incensurato e non coinvolto nell’inchiesta) verso Crivaro? “Nei suoi confronti – risponde V.R. – nutro un senso di soggezione. L’essergli amico mi dà tranquillità”. Non solo. Nel momento in cui il funzionario cambia casa, Crivaro lo rassicura: “A questa casa non accadrà mai nulla”. Eppure, conclude il pm, “siamo a Erba e non a Platì”.

E giusto perché siamo nella ricca Brianza, un boss conclamato come Pasquale Varca, secondo l’accusa, può permettersi di chiedere a un imprenditore di cacciare gli autotrasportari locali per fare spazio a quelli calabresi. L’episodio riguarda i lavori sulla SS38 della Valtellina. Opera pubblica, la cui commessa principale va alla Valena Costruzioni srl di Mauro Ferrario. Inizialmente i lavori di trasporto vengono appaltati alla Perego strade che, poco dopo, finirà in mano alla ‘ndrangheta. “Eppure – dice Ferrario a La Provincia di Sondrio – Quando abbiamo acquisito il lavoro, un anno e mezzo fa, la Perego Strade era un’azienda rispettabile, con 200 dipendenti e 120 camion da impiegare nel movimento terra”. Con il passare del tempo la situazione economica della Perego si complica. Ferrario deve cambiare. E per farlo chiama i camion di Pasquale Varca. A domanda dei pm, inizialmente, risponde: “Varca? Non credo di averlo mai conosciuto”. La procura, allora, squaderna alcune intercettazioni dove l’imprenditore dice a Varca che una volta stabilito il prezzo del trasporto deve allontanare gli altri trasportatori”. Quindi dice: “Dopo il recesso della Perego era mio interesse reperire il maggior numero di camion possibile strappando un prezzo concorrenziale. Quindi ho chiamato Varca”. Ferrario non risulta minimamente indagato.

Capita in Lombardia, un anno dopo il maxi-blitz. Capita questo ed altro. Ad esempio che il signor Carlo, dentista di Milano, subisca furti nel suo studio, ma al posto che andare dai carabinieri chiami al telefono il boss Vincenzo Mandalari. Il quale, in maniera serafica, risponde: “Guarda hai due alternative: paghi 10mila euro, ti restituiamo quello che ti hanno rubato. Se no paghi per la protezione e sta sicuro che non ti succederà più niente”.

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