Ancora una volta hanno vinto loro. Come ampiamente previsto, peraltro, e come accade quasi sempre, in fin dei conti. Nella seduta di martedì, il Senato degli Stati Uniti ha respinto la proposta della Casa Bianca di eliminare i tagli fiscali garantiti alle cinque grandi compagnie petrolifere nazionali allo scopo di generare un incremento delle entrate pari a 21 miliardi di dollari nel prossimo decennio. Un risultato che era nell’aria da qualche tempo e che l’assemblea ha confermato al momento del voto. Con 52 favorevoli e 48 contrari, il fronte “abolizionista” non è così riuscito a raggiungere quella maggioranza qualificata di 60 voti necessaria per l’adozione di un simile provvedimento. Garantendo a BP, Exxon Mobil, Shell, Chevron e ConocoPhillips l’opportunità di brindare allo scampato pericolo.

Il voto rappresenta una sconfitta per l’amministrazione Obama, intenzionata a introdurre il nuovo regime fiscale per compensare i rincari imposti ultimamente sulla benzina e finanziare lo sviluppo delle energie alternative. Un piano naufragato, almeno per adesso, di fronte all’esito della consultazione. A dire di no, al momento del voto, 45 repubblicani e 3 democratici (Mark Begich dell’Alaska, Mary L. Landrieu della Louisiana e Ben Nelson del Nebraska). Favorevoli, 48 esponenti della maggioranza, 2 dell’opposizione e altrettanti indipendenti. “La sconfitta di martedì era stata annunciata dal momento in cui la maggior parte dei repubblicani si era impuntata contro quello che era visto come un piano politicamente motivato in vista delle elezioni del 2012 – scrive oggi il New York Times – i democratici avevano sperato che il fatto di utilizzare le entrate a sgravio del deficit avrebbe reso più difficile la bocciatura del provvedimento da parte degli avversari”.

Proprio il problema del deficit riporterà a breve d’attualità il tema della tassazione delle compagnie petrolifere. Martedì il senatore democratico del Nevada Harry Reid si è detto fiducioso in merito alla prossima abrogazione dei tagli fiscali al settore in conseguenza della ridiscussione dei limiti sul debito pubblico prevista per l’estate. Entro il prossimo 2 agosto, infatti, il Congresso dovrà approvare un innalzamento della soglia massima del debito per consentire al Dipartimento del Tesoro di emettere ulteriori obbligazioni rastrellando così nuova liquidità dagli investitori. Il raggiungimento dell’intesa è ovviamente condizionato dall’approvazione di piani per nuove entrate capaci di compensare almeno in parte la crescita dell’esposizione debitoria.

Le speranze, dunque, sono ancora vive e vegete. Ma la frustrazione è forte. La mancata revoca delle due grandi agevolazioni fiscali in discussione – quella relativa alla produzione negli Usa e lo sgravio sulle imposte pagate ai governi stranieri – ribadisce ancora una volta l’anomalia di un settore capace di ottenere un’enorme redditività restituendone solo una minima parte alle casse dello Stato. Una condizione invidiabile, garantita non soltanto dalla legge statunitense.

Negli ultimi due anni, ha rivelato nei mesi scorsi il quotidiano El País, la filiale spagnola della ExxonMobil (ovvero della più grande corporation del Pianeta con i suoi 383 miliardi di dollari di ricavi annuali), ha accumulato quasi 10 miliardi di euro di profitto senza versare al fisco di Madrid nemmeno un centesimo. Un privilegio perfettamente legale, frutto della micidiale combinazione rappresentata da una legge garantista – che impedisce alle corporation di pagare le tasse contemporaneamente sia sui profitti della casa madre sia su quelli della filiale – e da una particolare struttura proprietaria capace di distribuire le società della catena in una serie di sedi “paradisiache” (la ExxonMobil Spain è azionista della ExxonMobil Luxembourg).

La voglia di giustizia fiscale è tanta. Ma non tutti, nel fronte della maggioranza, la pensano così. “Per quale motivo dovremmo danneggiare un’industria costituita da cinque grandi compagnie del gas e del petrolio che operano a livello internazionale e che in America danno lavoro a 9,2 milioni di persone?” si è chiesta la senatrice della Louisiana Mary L. Landrieu in un intervento riportato ancora dal New York Times. Un’opinione ben motivata, soprattutto alla luce di un primato non da poco. Tra il 2009 e il 2010, ha rivelato nel settembre scorso il Center for Responsive Politics (Crp), un ente di ricerca indipendente di Washington, l’apparato industriale gas/petrolio ha speso un quarto di miliardo di dollari in attività di lobbying contro i miseri 33 milioni messi in campo dal settore della green economy. Nella Top ten dei maggiori beneficiari del mondo politico compaiono, nell’ultimo ventennio, l’ex candidato presidenziale John McCain, primo in classifica con oltre 2,7 milioni di dollari incassati, otto repubblicani e un’esponente democratica. Quale? Proprio Mary Landrieu, ovviamente, ottava in graduatoria, e prima del suo partito, con un incasso complessivo di 828 mila verdoni. Chapeau.

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