Dunque – riprendendo il discorso là dove lo avevamo lasciato – di che cosa è fatta la actualización annunciata da Raúl Castro? In che termini il “neocastrismo” s’appresta ad “attualizzare” se stesso? Soltanto autoriproducendosi in attesa d’un relevo che la sua stessa logica ha reso impossibile?

Non tutti lo credono. Molti – e con più d’una buona ragione – fanno notare come il Congresso appena conclusosi sia dopotutto stato, ben oltre la riconferma della gerontocrazia al timone, anche il punto di svolta che ha definitivamente e ufficialmente sancito (almeno in termini prettamente gerarchici) l’uscita di scena dell’uomo che più d’ogni altro ha incarnato l’essenza della rivoluzione cubana. Anzi, dell’uomo che è a tutti gli effetti stato (e che per molti versi ancora è) la rivoluzione cubana. Fragilissimo e silenzioso, Fidel è apparso di fronte al Congresso soltanto per confermare, all’interno d’un cerimoniale – da qualcuno definito pre-velorio, o pre-funerale – appositamente elaborato per celebrare la fine del “lungo addio” cominciato quando, nell’estate del 2006, un’emorragia intestinale, superata solo grazie ad una lunga serie di interventi chirurgici, ha per sempre separato il comandante en jefe (comandante in capo) dalla diretta gestione d’un potere fino a quel momento esercitato in modo pressoché assoluto. E, se il dopo-Fidel è davvero cominciato, questo vuol dire – osservano alcuni – che è davvero cominciato (qualunque sia il significato autentico di questa espressione) anche il “dopo-rivoluzione”.

Molti, tra gli ottimisti, puntano gli sguardi, non su un gruppo dirigente storico ancora saldamente al potere ma, comunque, ormai prossimo ad esalare il suo ultimo respiro, bensì sui 115 nomi del Comitato Centrale (erano 150 prima del Congresso), la cui età media non viene rivelata, ma che – secondo dati ufficiali – mostra un rilevante aumento della presenza di donne (41 per cento), di neri e di mulatti (31 per cento). Norberto Fuentes – scrittore auto-esiliatosi nei primi anni ’90 crede di intravvedere in questo sotterraneo sommovimento una “inarrestabile” forza di “rinnovamento darwiniano”, capace di rompere col passato e, nel contempo, di ridare vita ad una rivoluzione moribonda – anzi a una rivoluzione già morta (e morta, secondo Fuentes, durante il processo Ochoa, nell’estate dell’89) – trasformando in vere e dinamiche riforme le mezze misure sancite dal Congresso.

Può darsi che gli ottimisti abbiano ragione. Può darsi che a Cuba, sotto la superficie della cerimonia congressuale, qualcosa si stia davvero muovendo. Può essere che, oltre le retoriche nebbie delle celebrazioni del passato e delle commemorazioni del líder máximo ora diventato (parole sue) semplice “soldato delle idee”, il futuro del primer teritorio libre de America sia davvero cominciato. Dopotutto, recita un’antica massima, spesso le apparenze ingannano. Resta tuttavia il fatto che quel che il Congresso ha lasciato vedere di se stesso – durante la parata militare che ha preceduto i lavori e ogni qualvolta il dibattito, svoltosi a porte chiuse, ha aperto uno spiraglio al pubblico – di “nuovo” non ha mostrato, in effetti, che le rughe dei suoi scontatissimi vincitori. Nuove rughe e, tra le rughe, riforme economiche che – pur essendo indubbiamente le più audaci mai varate dal castrismo nel suo post-rivoluzione – preannunciano soltanto un sistema di produzione militarizzata (le Forze Armate già oggi controllano gran parte dell’economia) nella quale all’iniziativa privata (quella che dovrebbe coprire il milione e passa di impieghi statali in procinto di eliminazione) non si lasciano che attività marginali. Come ha scritto l’economista Carmelo Mesa-Lago dell’Università di Pittsburgh: quello che Raúl prospetta è, in realtà, “un comunismo senza sussidi e un capitalismo senza mercato”. Qualcosa che, in sostanza, non esiste in natura.

Le famose 178 “attività” riconsegnate alla libera iniziativa da una legge varata lo scorso anno ci parlano d’un mondo – un mondo fatto di riparatori d’ombrelli e di cardatori di lana, di straccivendoli e di arrotini – che, altrove, non esiste più. E si è subito trasformato, quell’elenco, in carne da cannone per le barzellette (l’unica forma di libertà d’espressione che il regime non è riuscito ad eliminare) che di questi tempi si raccontano nelle strade dell’Avana. Una in particolare, tra queste “nuove” attività, sembra aver colpito la fantasia popolare: il mestiere di forrador de botones, il foderatore di bottoni, finalmente libero di “esercitare” fuori da ogni controllo statale (fisco escluso).

Domanda: si può cambiare una società foderando bottoni? Probabilmente no. Ma – come Leonardo Padura Fuentes rammenta in un bell’articolo pubblicato da Ips e dedicato alla “rinascita”  dell’Avana– se qualcosa mezzo secolo di rivoluzione ha insegnato ai cubani è, come si dice, a resolver. Ovvero: a fare di necessità virtù. Stiamo a vedere.

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