L’inchiesta

Investimenti in Iran, il blitz di Padoan da 5 miliardi di euro

Paese a rischio - Prima di lasciare, il ministro vuole emanare il decreto che dà la garanzia di Stato alle imprese che investono a Teheran

27 Marzo 2018

Il prossimo governo rischia di partire con due alleati dell’Italia piuttosto irritati: gli Stati Uniti e, soprattutto, Israele. Colpa di un decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri che è pronto per la firma del premier Paolo Gentiloni, redatto dal ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan che in queste settimane sta facendo di tutto per farlo approvare prima del cambio di esecutivo. Il decreto, che non ha bisogno di passare dal Parlamento, attua un articolo della legge di Stabilità 2018 sulla garanzia statale di 5 miliardi per le imprese che investono in Iran.

Anche se dopo l’accordo sul nucleare c’è stato un po’ di disgelo, l’Iran resta un Paese oggetto di sanzioni Onu e degli Stati Uniti (soprattutto ora con la nomina a consigliere per la sicurezza nazionale del falco anti-iraniano John Bolton), ed è uno di quei “Paesi qualificati ad alto rischio dal Gruppo di azione finanziaria internazionale (Gafi)” verso i quali il decreto vuole “promuovere lo sviluppo delle esportazioni e dell’internazionalizzazione”. Tra 2016 e 2017 le imprese italiane hanno concluso vari accordi preliminari con il governo di Teheran o le controparti locali. Ci sono tutti i grandi gruppi dell’industria italiana che puntano al gigantesco mercato persiano da 77 milioni di persone. Durante gli anni del governo Renzi e di quello Gentiloni si sono messe in prima fila aziende che erano anche tra i finanziatori del renzismo: il gruppo di costruzioni Pessina, già azionista dell’Unità, la siderurgica Danieli, Ansaldo Energia, Gavio, e poi società a controllo pubblico come Saipem e le Ferrovie dello Stato guidate dal super-renziano Renato Mazzoncini.

Il ministero del Tesoro di Padoan si è assunto l’onere di “facilitare il coinvolgimento del nostro sistema bancario” nel portare a termine il negoziato sul Master Credit Agreement, l’accordo quadro di finanziamento che deve rendere possibili queste operazioni. Tradotto: per le banche italiane operare con l’Iran è molto rischioso, a dicembre 2016 il Financial Times ha rivelato che Intesa Sanpaolo ha dovuto pagare al dipartimento di Giustizia americano una sanzione di 235 milioni di euro per non aver vigilato sulle operazioni con controparti iraniane, mancavano cioè i controlli per assicurarsi che i soldi non finissero a soggetti colpiti da sanzioni. Anche Unicredit è finita sotto la lente del governo Usa. Il Tesoro doveva quindi sbloccare 5 miliardi di finanziamenti senza esporre a rischi di sanzioni gli istituti di credito italiani. Lo schema dovrebbe funzionare così: il soggetto iraniano si impegna nell’acquisto di beni, servizi o infrastrutture dall’impresa italiana e si fa finanziare la commessa dalle banche iraniane Bank of Industry and Mine e Middle East Bank che hanno una garanzia dalla Repubblica Islamica. Ma poiché resta il rischio Paese (tradotto: il governo di Teheran cade o decide di chiudere i rubinetti o è costretto a farlo da eventuali nuove sanzioni), serve anche una garanzia dal lato italiano.

E qui arriviamo alla norma della legge di Stabilità, a suo tempo contestata dalle opposizioni, e al decreto pronto per l’approvazione, che il Fatto ha potuto leggere. Il Tesoro crea una società per azioni controllata da Invitalia, l’agenzia (pubblica) per attirare investimenti stranieri. Si chiama Invitalia Global Investment, l’ad è il dirigente di Invitalia Giuseppe Arcucci. Fin dall’articolo 1 del decreto è chiaro che il governo è consapevole che ci potranno essere problemi con le sanzioni. Viene specificato che “in considerazione dello specifico ambito in cui opera e dei diversi rischi legati all’esercizio delle funzioni a essa assegnate, Invitalia Global Investment opera quale entità indipendente e separata”. Ma non è certo separata dallo Stato, visto che è autorizzata a rilasciare garanzie che sono il sogno di ogni imprenditore. La garanzia pubblica, infatti, copre “qualsiasi inadempimento da parte del debitore principale e/o di terzi co-obbligati e/o di terzi garanti, quale ne sia la ragione o la causa”. Se qualcosa va storto in Iran, perché la politica locale, il contesto internazionale, o anche soltanto l’investimento si rivela sbagliato, a pagare ci pensa lo Stato italiano. Oggi a bilancio questo rischio non si vede, perché per il 2018 Invitalia Global Investment ha una dotazione di 120 milioni ma, “gli impegni finanziari assumibili sono pari a un massimo di 5 miliardi di euro”. Bisogna quindi sperare che questi investimenti vadano a buon fine o il conto per lo Stato rischia di essere differito ma salato.

Nell’articolo 1 del decreto preparato da Padoan per Gentiloni si intuisce la vera ragione di questa complessa macchina burocratica: mettere una società pubblica a fare da schermo alle banche italiane in modo che queste non siano esposte al rischio di sanzioni. Si legge infatti che Invitalia GI può ricevere finanziamenti “da investitori istituzionali nelle varie forme tecniche consentite dalla legge”. Visto che sembra l’attività di una banca (raccogliere fondi, investirli, incassare commissioni), il decreto precisa che “è in ogni caso precluso lo svolgimento dell’attività bancaria e creditizia”.

Il decreto è pronto, resta da capire se un governo in carica per l’ordinaria amministrazione se la sente di approvare un provvedimento così politicamente delicato. Israele e gli Usa osservano inquieti.

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