Dieci anni di riforme: l’Europa del lavoro precario è in ginocchio

Di Maria Maggiore *
29 Settembre 2017

“L’economia europea va meglio”, ripetono senza sosta a Bruxelles: in due anni abbiamo creato 5,5 milioni di posti di lavoro nella zona euro, la disoccupazione è scesa dal 12,1% nel 2013 al 9,5% quest’anno. Il peggio è quindi passato? Tutt’altro e crogiolarsi con queste stime di superficie non aiuta gli europei a sentirsi meglio e a consumare di più. Dei nuovi posti di lavoro creati “4 su 5 sono precari, a tempo determinato e largamente sotto pagati”, afferma l’Ufficio statistico europeo, Eurostat. “I nuovi posti di lavoro in Europa sono di bassa qualità e questo fa male all’economia” aggiunge Gilles Moec della banca americana Merill Lynch.

La finzione sta crollando. Per più di un decennio, la Commissione europea ha chiesto ai nostri governi di liberalizzare il mercato del lavoro, renderlo competitivo, abbassando i salari e abolendo i contratti collettivi di lavoro a vantaggio di accordi negoziati, in segreto, dentro le imprese. Sarebbe stato il volano delle nostre economie. “Flexicurity” era la parola magica pronunciata a Bruxelles dall’allora presidente José Barroso o dal suo diligente commissario Olli Rehn, un mix di flessibilità nei contratti e di protezione sociale. Solo che mentre la prima si è ben radicata, la seconda stenta ad arrivare e intanto, il livello dei salari è crollato e i precari sono diventati “lavoratori poveri”. Anche da noi sono arrivati i diktat europei. Nell’agosto del 2011 la famosa lettera della Banca centrale europea chiedeva di abolire “lacci e lacciuoli nel mercato del lavoro” per rilanciare l’economia. Noi siamo stati diligenti, le riforme sono state fatte in Italia: le leggi Treu, Biagi, Fornero, fino al Jobs Act di Matteo Renzi con la fine del tabù dei licenziamenti, hanno di volta in volta liberalizzato di più il mercato del lavoro. Ma la crescita e la competitività sono rimaste basse, tra le più basse d’Europa.

Le ricette targate Ue, Fmi e Bce: i mea culpa

In Italia solo quest’anno è stato creato un milione di contratti (dati Inps), ma solo 27.000 sono a tempo indeterminato. Il resto appartiene alla giungla dei contratti “non-standard”, come quelli “a chiamata”: devi essere sempre disponibile, quando c’è lavoro ti chiamo, altrimenti stai pronto, ma non vieni pagato. Nel 2017 i contratti “zero ore” sono aumentati del 124,7%. E le persone a rischio di povertà da noi sono ormai 17 milioni (28,7%), un popolo che non consuma, non fa girare l’economia. E un giorno, potrebbe esplodere. “La precarietà costa molto alla società”, ha detto a Investigate-Europe Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, incontrato quest’estate in Francia. Dopo aver obbligato, tramite la Troika, la Grecia a tagliare fino al 40% i salari, oggi l’Fmi ammette di aver proposto la ricetta sbagliata. Blanchard non è il solo a fare una tardiva marcia indietro. Mario Draghi, presidente della Bce (parte della Troika) e firmatario della lettera del 2011 ha ripetuto due volte in due mesi che “aver tenuto i salari bassi forse non ha giovato all’economia, perchè domanda interna e inflazione sono rimaste troppo basse”.

Eppure si continua sulla stessa strada. Il presidente francese Emmanuel Macron sta portando avanti una riforma del lavoro che ricalca il Job’s Act italiano e la riforma Hartz in Germania. Ma i francesi faranno ancora meglio. Saranno ampliati i “contratti a progetto”: vieni qualche giorno, poi te la vedi tu.

In Germania con le elezioni di una settimana fa, il velo è caduto. Dopo aver ripetuto per anni che quello tedesco era il modello da seguire – salari bassi, buona protezione sociale e boom delle esportazioni – oggi i media scoprono che un milione e mezzo di lavoratori tedeschi vive con meno di 1000 euro al mese – che lì sono molto pochi – e 12 milioni di persone sfiorano la povertà. Il successo di Alternative für Deutschland nasce da qui.

Flessibilità, le bufale spacciate per promesse

Il mantra era: meno protezione, più lavoro. Il Commissario agli Affari economici Olli Rehn, parlando al Parlamento italiano nel 2013, chiedeva di “avviare con urgenza le riforme sul lavoro richieste all’Italia”. Diceva che la “medicina produrrà i rimedi”. E le riforme sono arrivate.

I ricercatori Agnieszka Piasna e Martin Myant della Confederazione europea dei sindacati (Ces), spiegano che “non esiste la prova che la flessibilità porti nuovi posti di lavoro” (“Miti della deregulation del lavoro”, maggio 2017). Dopo aver condotto uno studio in nove paesi europei, concludono che “ridurre la protezione nel lavoro non porta benefici né al mercato del lavoro né all’economia”. L’economista italiano Riccardo Realfonzo (Università del Sannio) è andato oltre: ha preso i dati dell’Osce sul livello di protezione al lavoro (il famoso indicatore Epl) e li ha affiancati ai livelli di disoccupazione: “Se la protezione di un lavoratore diminuisce, dovrebbero diminuire anche il tasso di non occupati. E invece, nei dati Ocse, i due non vanno insieme: cala la protezione e aumenta la disoccupazione”. Come mai? “La verità è che i nostri politici non vogliono vedere che le politiche del lavoro non spostano molti numeri”.

La seconda promessa: saranno ridotte le disuguaglianze e la distanza tra chi è dentro l’ impresa e chi ha contratti a termine. Non è successo. Il livello di povertà della zona euro è aumentato in tutta l’Unione europea e, al contrario – spiegano i ricercatori Piasna e Myant del Ces – è aumentata la distanza con chi sta fuori. Gli operai poco qualificati, per esempio, prima “protetti” da contratti nazionali firmati per un’intera categoria, si sono ritrovati con contratti a tempo, meno soldi e molta più insicurezza anche nel gestire i rapporti dentro l’impresa. Quando sai che il tuo contratto scade, come puoi rivendicare dei diritti?

La terza promessa: con la flessibilità aumenterà la produttività. Non è vero. Secondo il rapporto annuale dell’Osce sul lavoro (2017), il livello di produttività è calato in 18 Stati membri dell’Ue (per tanti fattori legati anche alla mondializzazione): “Nel 1995 la crescita della produttività nell’area euro era in linea con il resto del mondo, al 2%. Oggi siamo allo 0,5%, sotto Stati Uniti e altre economie emergenti”.

La quarta promessa: crescerà la competitività, e con essa l’economia. È uno degli slogan con cui è stato “venduto” il Jobs Act. Nel 2016, però (a due anni dall’entrata in vigore), eravamo al 44° posto mondiale per competitività, ben sotto Germania, Francia e Spagna. In Portogallo abbiamo incontrato uno dei consiglieri economici dell’ex presidente della Commissione Delors (1985-95), Stuart Holland, che si è scagliato contro l’ormai ex ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble. “Chiedeva a tutti i Paesi europei di fare come la Germania. Ridurre il costo del lavoro con la flessibilità avrebbe fatto aumentare la produttività dei precari, disposti a tutto pur di lavorare”. In Germania ha funzionato, ma a un prezzo tremendo. “È stato un errore. Delors lo aveva capito negli anni 70. A chi gli chiedeva di fare riforme del lavoro, lui rispondeva: ‘È il capitalismo che deve cambiare’.

Portogallo e Norvegia, come tornare indietro

Si può tornare alle politiche di piena occupazione? Il primo ministro portoghese Antonio Costa, l’ha promesso, dopo che la Troika ha spazzato via i contratti collettivi e la protezione dei lavoratori. Ha già proposto una legge che alza le tasse a chi assume a tempo determinato. Nella nostra inchiesta abbiamo fatto una sosta in Norvegia dove si spende il 23% del welfare solo per le politiche del lavoro (contro l’1,7% in Italia). Lì, dopo la crisi causata dal crollo del prezzo del petrolio, che nel 2014 ha cancellato 50 mila occupati, i politici stanno mettendo in piedi un sistema di barriere legislative contro la precarizzazione: un contratto part-time non può durare più di un anno e non si può far siglare a più del 15% del personale. In Italia, Claudio Treves, segretario del sindacato Nidil (Cgil) dice: “Ci vuole una carta universale dei lavoratori, che ne protegga i diritti. Qualunque lavoratore deve avere la stessa protezione sociale”. La sua petizione ha raccolto 1,3 milioni di firme.

 

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