Zone rosse

Ospedali, infermieri, farmacie: gli angeli del virus

Gli specialisti del Sacco e del Policlinico di Milano: “L’organizzazione sanitaria è già ai limiti del collasso. Il coronavirus impatta molto sulle strutture”

Di Sarah Buono, Davide Milosa e Marco Pasciuti
9 Marzo 2020

Ogni mattina Giuseppe Maestri parte da Piacenza e dopo un’ora e mezzo in macchina arriva a Codogno per aprire la sua farmacia. L’unica aperta nella zona rossa. Infila guanti, mascherina e si mette a disposizione degli abitanti. Tutti i giorni da quando è esplosa l’emergenza Coronavirus supera i controlli e il check-point grazie a un permesso speciale rilasciato dalla Prefettura di Lodi. “Mi ricorda molto la Germania divisa degli anni Settanta, le forze dell’ordine ormai mi conoscono, “Ah è lei? Passi dottore”. Poi arrivo a Codogno, un paese al di fuori delle logiche normali della vita quotidiana, è tutto un po’ surreale. Fuori dalla farmacia ci sono guanti e mascherine, così anche i clienti si proteggono, non è facile ma teniamo duro”. Maestri si schernisce quando lo definiscono uno degli eroi. “Forse lo è più mia moglie che rimane a casa con i nostri tre figli, io sono solo una farmacista di provincia che continua a lavorare. Il virus ha cambiato anche i nostri rapporti professionali, le persone entrano e escono velocemente, uno alla volta”. la situazione sta lentamente evolvendo: “I primi giorni c’era il panico, ora girano in pochi e con mascherina e guanti”.

La sera, quando non ha il turno notturno, il farmacista torna a Piacenza. La scelta di continuare a lavorare per i malati del Coronavirus ha inciso anche sulla sua vita: nessuna uscita o contatto con altri. “La mia giornata tipo adesso è questa, ho deciso di pensare a Codogno, ho una farmacia anche nel centro di Piacenza ma lì non posso andare”. Ai professionisti impegnati nel nosocomio piacentino ci ha pensato anche “Pronto pizza” che negli scorsi giorni ha fatto recapitare pizze per rifocillare medici e infermieri, esempio seguito anche da un anonimo che ha spedito 30 pizze ad altri operatori. Claudia Castelli, una blogger, ha lanciato l’iniziativa: manderà dolci e pasticcini per addolcire i lunghi turni negli ospedali mentre un imprenditore locale ha fatto giungere al nosocomio di Castel San Giovanni le mascherine che aveva in azienda. Il Parma Calcio 1913 ha donato 25 mila euro “agli eroi del reparto di malattie infettive di Parma”.

Al di qua del confine c’è Senna Lodigiana, una strada parallela alla provinciale 126 su cui si affacciano una manciata di case e i loro 1.800 abitanti, a ridosso dell’area della quarantena perpetua. Una moderna Belfast sbriciolata sulla bassa pianura lombarda in cui a dividere la gente sono i dati dell’epidemia. “Al di là della frontiera ci sono a un tiro di schioppo sia Somaglia che Casalpusterlengo”, racconta Dario Castelli, che dal bancone del suo negozio in via Dante Alighieri si fa portavoce delle farmacie della zona rossa per garantire ai suoi abitanti il più indispensabile tra i beni primari. “Stiamo mettendo su una rete perché non manchi mai l’ossigeno. Serve ai pazienti che vengono deospitalizzati per respirare a casa. Noi abbiamo le bombole, ognuno di noi deve poter contare sui colleghi per rifornirsi quando finiscono le scorte. E questo vale anche per il resto delle medicine. Non c’è solo il coronavirus”. Però bisogna farci i conti: “Le mascherine erano arrivate – racconta Castelli – ma le scorte stanno finendo. Speriamo che ce le rimandino presto. Molti medici di famiglia sono in isolamento, molti finiranno lunedì (oggi, ndr) la quarantena – prosegue Castelli – Non hanno potuto vedere i loro pazienti, neanche quelli cronici come i diabetici o gli ipertesi che hanno bisogno dei farmaci. Per aiutarli il dottore fornisce il codice della ricetta al paziente e noi forniamo il prodotto”. C’è bisogno del prossimo, qui dove i rapporti umani sono quasi sospesi: “Sono in contatto con i colleghi che avevano servito il paziente 1”. Il 38enne di cui tutta l’Italia parla “si era presentato in ospedale a Codogno il venerdì, il sabato sono andati tutti a fare il tampone, siamo stati in angoscia per tutto il giorno e poi la sera ci hanno chiamato: tutti negativi. Piangevano”.

Il risultato del test era arrivato dall’ospedale Sacco di Milano, in questa tragedia moderna che accomuna campagna e metropoli. In città c’è una categoria che si è ritrovata in “guerra” da subito. In realtà lo era già prima del 20 febbraio, e cioé da quando l’Oms, era metà gennaio, segnalava strane polmoniti in Cina. Sono i ricercatori dell’ospedale Sacco e del Policlinico di Milano, prima linea del fronte contro il Covid-19. La professoressa Maria Rita Gismondo è un medico tosto e ostinato, dirige il laboratorio di Microbiologia, virologia e bio-emergenza. Fin da subito, con senso di responsabilità, non ha nascosto i fatti ma nemmeno li ha enfatizzati, come hanno fatto altri. “Il pericolo di ammalarsi resta ancora basso”, spiega e annuncia “una mappa” per seguire gli spostamenti del virus Sars2Cov che “non è arrivato certo il 20 febbraio, ma molto prima”. La prof è stata la prima a ipotizzare una diffusione “precoce”, forse già a dicembre. Lavoro h 24, dunque, per inseguire il virus e trovare soluzioni. “Ora – dice – studiamo gli anticorpi dei vecchi malati”. L’obiettivo è una cura certa e non più sperimentale. Insomma si batte ogni strada. Anche il professor Massimo Galli, a capo del dipartimento di Malattie infettive del Sacco, è sulle tracce del virus. Si analizzano le sequenze genomiche, si mettono insieme alberi filogenetici. La sua equipe ha isolato i primi tre ceppi del virus e ha trovato affinità con altri in Europa, Germania e Finlandia. “Scordiamoci – spiega Galli – che sia una situazione che possa essere velocemente risolta, abbiamo un numero di infezioni molto alto, e che hanno iniziato a manifestarsi prima del caso di Codogno, già adesso l’organizzazione sanitaria è ai limiti”. Altra figura che lavora nell’ombra è il professor Antonio Pesenti, direttore del Dipartimento emergenze del Policlinico di Milano nonché coordinatore della task force in Regione Lombardia. “Questa malattia non è una banale influenza, e un’alta percentuale di pazienti richiede ricoveri in terapia intensiva”. Di più: “Le proiezioni ci fanno prevedere un disastro sanitario” perché “questo virus impatta molto sulle strutture e richiede isolamento, la Lombardia ha tecnologia e competenze per trattarlo, ma il principale provvedimento è contenere l’epidemia”. Medici, dunque. Esperti, loro malgrado nuovi eroi di oggi.

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