Le paure del Messico

Messico, il voto populista per non farsi ammazzare – Il reportage di Alessandro Di Battista (3)

Di Alessandro Di Battista
12 Agosto 2018

Al primo piano del Palacio de Bellas Artes di Città del Messico c’è “L’Apoteosi di Cuauhtémoc”, uno dei murales più famosi di David Alfaro Siqueiros. Siqueiros è stato il grande rivale di Diego Rivera. Rivera detestava Stalin, Siqueiros lo elogiava, Rivera ospitò Trotski, Siqueiros cercò di ucciderlo.

Poche settimane prima che Ramón Mercader, agente segreto al servizio di Stalin – nonché fratello di Maria Mercader, mamma di Christian De Sica – rompesse il cranio di Trotski con una piccozza, Siqueiros partecipò a un attentato ai danni del rivoluzionario bolscevico. Un commando di una ventina di persone crivellò di colpi la casa di Trotski a Coyoacán. Trotski e signora si nascosero sotto il letto e riuscirono a salvarsi. A quei tempi in Messico gli attentati potevano anche fallire, oggi è più difficile che accada. A Siqueiros venne proposto di dipingere Cuauhtémoc un anno dopo il presunto ritrovamento dei suoi resti, lui accettò di buon grado. Cuauhtémoc fu l’ultimo sovrano azteco, fu lui a organizzare la difesa di Tenochtitlan, l’attuale Città del Messico, dai conquistadores spagnoli. Tenochtitlan resistette tre mesi, poi capitolò fiaccata dal vaiolo. Cuauhtémoc venne catturato da Hernán Cortés nell’agosto del 1521. La figura di Cuauhtémoc ispira le pulsioni di rivincita che covano da secoli tra il popolo messicano. Un popolo conscio delle straordinarie ricchezze e opportunità del Paese e di quanto queste siano state depredate o castrate. Il luogo della cattura di Cuauhtémoc e dell’ultimo massacro azteco coincide con quello della prima grande carneficina degli studenti messicani. Fu proprio a Tlatelolco, in Piazza delle Tre Culture, che l’esercito messicano sparò contro il Movimento studentesco nell’ottobre del 1968, a pochi giorni dalle Olimpiadi di Città del Messico.

Sul Paseo de la Reforma, il viale dove i grattacieli fanno a gara per andare a prendersi un po’ di aria che non sia contaminata dallo smog, a poche decine di metri dal monumento a Cuauhtémoc, c’è un presidio di attivisti che da oltre 1400 giorni chiedono che vengano puniti i veri responsabili della strage di Ayotzinapa. Il 27 settembre 2014 un gruppo di studenti della scuola rurale di Ayotzinapa rubarono alcuni bus per recarsi a Città del Messico per partecipare alle manifestazioni in ricordo del massacro del 1968. A quanto pare la polizia locale, per ordine del sindaco di Iguala, Jose Luis Abarca, sparò contro i bus degli studenti uccidendone 6 per poi sequestrane 43 e consegnarli a una banda criminale del luogo, i Guerreros Unidos, i quali li avrebbero uccisi tutti prima di bruciare i cadaveri in una discarica della zona. Questo episodio, insieme agli insulti rivolti da Trump verso il popolo messicano, ha senz’altro influito sull’esito delle recenti elezioni messicane che hanno visto, per la prima volta, vincere un candidato dichiaratamente di sinistra: Andrés Manuel López Obrador, Amlo come lo chiamano. Il massacro degli studenti di Ayotzinapa ha scosso l’opinione pubblica messicana non soltanto per la sorte dei ragazzi ma per il clima di sostanziale impunità che si è respirato immediatamente dopo la carneficina.

In Messico le vittime dell’economia criminale sono state almeno 250.000 negli ultimi anni. C’è chi sostiene siano molte di più, non è semplice tenere il conto degli immigrati irregolari che tentano la fuga negli Stati Uniti e dei desaparecidos. Nei giorni successivi al sequestro dei 43 studenti di Ayotzinapa, nel tentativo di scoprire il luogo della loro eventuale sepoltura, vennero scoperte due fosse comuni. In una c’erano i resti di 28 persone, in un’altra di 8. Nessuno apparteneva ai ragazzi scomparsi.

Al presidio sul Paseo de la Reforma c’erano tre ragazzi. Da settimane dormivano nelle tende piazzate nei giardini in mezzo alle due corsie del viale. Faceva caldo ed era ora di pranzo quando li ho incontrati. Andrea dormiva nel passeggino e io facevo domande. “Li hanno presi vivi e li rivogliamo vivi”, continuava a ripetermi uno di loro. Erano arrabbiati, demoralizzati, erano convinti che chi è finito in carcere per l’eccidio sia soltanto una marionetta dei veri mandanti: i pezzi grossi del Pri, il Partito Rivoluzionario Istituzionale, il partito che ha governato il Messico quasi sempre negli ultimi 90 anni: “Sono loro i colpevoli di tutte le stragi messicane, da Tlatelolco a Ayotzinapa passando per San Salvador Atenco e Aguas Blancas”. Non avevano particolare fiducia nei confronti del neo-Presidente López Obrador, non è semplice avere fiducia nelle istituzioni in un Paese dove troppe persone sono sparite nel nulla, tuttavia il voto gliel’avevano dato, l’avevano fatto per colpire il Pri.

Obrador ha ottenuto oltre il 53% delle preferenze. L’hanno votato praticamente tutti, dai contadini ai piccoli imprenditori, dagli studenti ai poliziotti e militari molti dei quali si sentono inferiori – per organico e per armi – ai narcotrafficanti. L’hanno votato i leader indigeni, per dare un’opportunità ad una forza politica nuova e per dare un’opportunità di sopravvivenza a loro stessi. A Città del Messico ho incontrato due leader di un’importante organizzazione contadina, Ana e Beto. Mi ha messo in contatto con loro Bibiana Rojas, una mia vecchia amica che lavora nello staff di comunicazione di Via Campesina Ecuador. Anche loro hanno scelto Amlo, anche loro poco convinti. Tuttavia di una cosa erano certi: con il cambio di governo la loro vita sarebbe stata più al sicuro. “Non sappiamo se Amlo realizzerà mai la riforma agraria per la quale si sono battuti tutti i grandi rivoluzionari messicani, non sappiamo neppure se sarà capace di contrastare la corruzione, ma con lui probabilmente sarà più difficile che ci ammazzino”, dicono Ana e Beto.

I leader delle organizzazioni contadine rischiano la vita ogni giorno. I narcotrafficanti ne hanno fatti sparire in tanti. Chi alza la testa, soprattutto nelle comunità indigene, è un pericolo. I grandi latifondisti hanno bisogno ogni giorno di nuove terre per competere tra loro. E, in un Paese dove esistono ancora terre in mano alle comunità rurali (niente proprietà privata ma diritto comunitario), il solo modo per accaparrarsele consiste nella distruzione dei villaggi indigeni.

Poi c’è il business dell’immigrazione clandestina che rende molto ed è una delle attività collaterali dei cartelli della droga. Ogni giorno migliaia di messicani decidono di abbandonare le loro comunità rurali. Lo fanno perché con il mais si guadagna sempre meno, perché sedotti da modelli di vita alternativi visti in tv nelle novelas messicane o colombiane, o perché terrorizzati dalle bande criminali, le pandillas, spesso a libro paga dei narcos. I pandilleros sono capaci di uccidere, di bruciare raccolti o piccole attività commerciali, di difendere con i kalashnikov gli interessi di qualche impresa mineraria straniera e soprattutto di spaventare la gente con la minaccia di arruolare a forza i ragazzi nelle loro bande.

Qua è un continuo di avvertimenti: “Viaggiate di notte? Ma siete matti, di notte assaltano”; “Non prendere la metro, meglio un Uber”; “Non prendere i taxi, ti costringono a fare i giri dei bancomat”. Io sono un uomo prudente, soprattutto adesso che sono padre, ma a dar retta a certe persone si smette di vivere. Mangiamo per strada, andiamo a fare spesa nei mercati rionali e siamo stati a Tepito perché è lì che vive la signora che cura l’altare della Santa Muerte.

I messicani, come tutti i popoli che hanno avuto vicinanza con la sofferenza, conoscono il modo di esorcizzare il dolore. Sanno far festa come pochi, sanno cosa sia l’ospitalità e sanno quanto sia indispensabile affidarsi alla speranza. Ci si aggrappa alla speranza e la speranza ha molto volti. Ha il volto di un ragazzo giovane che ha sfondato con il calcio, quello pieno di tatuaggi di un criminale che fa parte di una banda, ha il volto sorridente e rassicurante di Andrés Manuel López Obrador o quello scarnificato de la Flaca, la Commare secca, la Santa Muerte che si venera a Tepito. Tepito è il quartiere popolare più famoso di Città del Messico. Lo chiamano il barrio bravo (il quartiere arrabbiato) e pare che qui siano arrabbiati da quando, a poche decine di metri dal centro di Tepito, gli spagnoli catturarono Cuauhtémoc iniziando quel colonialismo che non è mai finito. Si arrabbiarono quando, grazie al Trattato di Libero Commercio del 1994, merci prima proibite iniziarono a circolare nel mercato messicano togliendo lavoro a centinaia di contrabbandieri che popolavano il quartiere. Si arrabbiano oggi se vengono considerati feccia perché feccia non sono.

A Tepito si resiste alla povertà o si cerca una strada per scongiurarla. La violenza è una di queste. C’è chi ne ha saputo fare un mestiere rispettato – alcuni dei pugili messicani più importanti sono nati proprio a Tepito – e chi l’ha utilizzata per guadagnarsi, con un’arma da fuoco, quel tipo di rispetto che rispetto non è. A Tepito i banditi hanno ucciso e sono stati uccisi, hanno commesso crimini e hanno aiutato la comunità a tirare avanti. Per questo, alcuni di loro, sono stati immortalati in un murales dipinto sulla parete di quello che un tempo era il bordello del quartiere. Si chiama il Muro degli assenti o Muro dei caduti. L’hanno tirato su esattamente nel punto dove vennero lasciati alcuni cadaveri di ragazzi ammazzati per strada. C’è chi sostiene fossero i cadaveri di una banda rivale a quella del quartiere e chi quelli dei ragazzi del barrio che erano andati a rubare ai ricchi delle zone alte della città per dare ai poveri di Tepito. Ognuno ha la sua verità. Davanti al muro c’è una croce con sopra scolpiti i soprannomi dei morti celebri del quartiere. C’è chi la morte se l’è cercata, chi l’ha trovata quando era tempo che arrivasse e chi non si aspettava proprio di finire in mezzo al fuoco incrociato.

Davanti al muro un uomo sulla sessantina mi ha detto di essere un sopravvissuto. Tutti i ragazzi con cui andava a rubare da giovane sono finiti su quella croce. C’è chi si ferma davanti ad essa per ricordare i ragazzi ingoiati dal quartiere e chi, dovendo chiedere che il pericolo di morire si allontani da lui o che magari si avvicini a qualcun altro, preferisce liquidare gli intermediari e rivolgersi direttamente alla protagonista della storia: la Santa Muerte. A Tepito c’è un altare dedicato alla morte, se ne prende cura una donna di oltre 70 anni alla quale hanno da poco ammazzato il marito. È gracile e malata da tempo. Mi avevano detto che sarebbe stato difficile parlarci, al contrario, la signora ci ha aperto le porte di casa sua. Le richieste di una famiglia in viaggio, con un bimbo piccolo al seguito, vengono quasi sempre tenute in considerazione. Mentre parlavo con la signora decine di persone provenienti da ogni angolo del Messico venivano ad omaggiare la Regina oscura nell’altare di fianco alla casa. C’era chi arrivava da Veracruz, chi dal Chiapas, chi da Chihuahua, chi direttamente dagli Stati Uniti d’America. Tutti a venerare una divinità le cui presunte scelte sono tangibili ogni giorno in tutto il Messico. La Santa Muerte ha le sembianze di uno scheletro di donna coperto da una lunga tonaca con in una mano una sfera di cristallo che simboleggia il potere che ha sul mondo intero e nell’altra una falce con la quale intervenire sul destino degli esseri umani. Chi la venera, e in Messico sono ogni giorno di più, la ritiene una divinità potentissima, l’unica realmente in grado di cambiare il corso degli eventi, la sola alla quale rivolgersi per chiedere che ogni genere di crudeltà capiti ai propri nemici. Sarà la Signora in persona a valutare la legittimità delle richieste.

La morte in Messico è una presenza costante. Anche se non hai avuto casi di violenza in famiglia o non sei devoto a la Flaca ne vedi le più macabre espressioni sulle prime pagine dei giornali più letti nel Paese. Il quotidiano Metro, il 19 luglio, ha pubblicato in prima pagina la foto di un cranio spolpato dagli insetti e di un piede ritrovati in un campo da calcio a Tultitlan. In basso a destra c’era la foto di un autista di un taxi pieno di sangue ucciso davanti a sua moglie. Sotto al teschio una bella ragazza dal volto occidentale con il seno di fuori. Mancavano soltanto Messi o Cristiano Ronaldo o Hirving Lozano, detto il “Chucky”, la nuova promessa del calcio messicano. Di solito, tra una tetta e un morto a colpi di machete ci sono sempre un paio di calciatori sulle prime pagine di questi giornali, i più letti dai poveri del Paese. Tette, sangue e calcio e il Popolo è distratto o intimidito. Il terrore è al potere e lasciarsi distrarre è quasi un’esigenza esistenziale.

Mio figlio è piccolo, lo stiamo educando e questo viaggio ci permette di insegnargli a non avere paura. Bene essere prudente, soprattutto in questo mondo, ma avere paura no. La paura ti blocca, ti soffoca, ti fa imboccare la strada che non avresti voluto prendere o abbandonare quella che avevi sempre sognato. La paura sceglie il lavoro al posto tuo, sceglie tuo marito o tua moglie al posto tuo, spesso sceglie persino il partito da votare al posto tuo. In Messico la miedocrazia, il regime della paura, conviene a chi detiene il potere. Chi ha paura pensa solo a riempire il proprio stomaco con un pasto nutriente o il proprio telecomando con delle pile che durino di più. Chi ha paura non si dedica alla politica, non rivendica diritti, non si informa veramente. Chi ha paura non legge ma giudica, non cammina, si limita ad andare avanti e indietro. Chi ha paura spera nel ritorno di Cuauhtémoc. Chi, al contrario, in questo meraviglioso Paese dalle mille contraddizioni ha il coraggio di non abbassare la testa spera che a tornare siano i ragazzi Ayotzinapa. Se fossero vivi dai loro racconti potrebbe nascere, finalmente, un altro Messico.

1 – Stati Uniti, i droni al posto dei rider
2 – Tijuana, il mondo perduto nascosto dal muro

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