Il reportage

Migranti, la rotta verso la Francia. “Meglio il gelo sui monti che l’inferno nigeriano”

REPORTAGE - Con Olanna e gli altri che passano la frontiera di notte da Claviere (Torino), “scortati” da italiani e francesi. Quasi un suicidio: salire con il rischio di gelo e valanghe

3 Aprile 2018

“Maracaibo, mare forza 9, fuggire sì, ma dove?”. Oltre la vetrata della baita vedi gente che ascolta e balla. Una ragazza con i capelli corti, l’abito aderente, beve Martini. Non sa. Non può vedere che appena fuori c’è Olanna che la guarda: “Sono arrivata dall’Africa in gommone, è la prima volta che vedo la neve”.

Stanno gli uni accanto agli altri, i ragazzi italiani che fanno festa e i migranti che tentano la traversata verso la Francia. Separati dallo spesso cristallo della baita. Di là caldo, musica; di qua gelo, terrore e speranza.

Siamo a Claviere, mezzanotte di Pasqua. È terminata la messa nella chiesa di pietra dove pochi giorni fa i migranti avevano cercato rifugio, suscitando la rabbia del parroco. Ma presto la folla si disperde e dall’ombra spuntano loro, i migranti. Prendono i sentieri che portano alla scuola di sci. Da qui parte la nuova rotta per la Francia, dopo che per mesi i migranti si ritrovavano a Bardonecchia e tentavano il Colle della Scala. Quasi un suicidio: salire di notte con il rischio di gelo e valanghe. Molti li ha salvati il Soccorso Alpino e speriamo che, con la primavera, non si trovino corpi sotto la neve.

Allora si parte da Claviere. La Francia è a un passo, un paio d’ore fino al Monginevro zigzagando per sentieri, ma il rischio di essere beccati è altissimo: “Il deserto, poi la traversata del Mediterraneo. Tutto buttato via in pochi secondi”, racconta Fabien, la guida francese. “Sentite le vostre forze. Se non ce la fate fermatevi”, raccomanda alle ombre che gli stanno davanti. Dodici persone in tutto. È il secondo gruppo questa notte. Fabien distribuisce maglioni, piumini, berretti. E soprattutto gli scarponi. Perché “c’è un freddo bastardo e se uno si ferma sono fregati tutti”.

Pronti? Sì. Il gruppo di ombre si mette in moto, di corsa, anche se è durissima appena si prende a salire. Uno accanto all’altro, in silenzio. Non si conoscono nemmeno, li unisce la speranza. Dodici ragazzini. Riescono appena a dirti da dove vengono: Nigeria, Sudan, Congo, Kurdistan, Siria.

Olanna – nigeriana di Awka – resta indietro. Con quel suo piumino scuro, il volto nero. Le vedi soltanto il bianco degli occhi, dei denti quando spalanca la bocca cercando aria. Ha una borsa a tracolla. Dentro ha il suo mondo: “Guarda”, dice mostrandoti la foto di una donna, la madre. Poi una scatola per il trucco, una merendina, un telefonino con cui ha mandato un messaggio prima del grande salto. “Vengo dalla Nigeria, ho attraversato il deserto con una mia compagna di scuola, ma lei…”, allarga le braccia. Annegata, fermata in Libia? Chissà. “Ho diciotto anni, in Nigeria era l’inferno. Preferivo morire”, dice mimando una mano intorno alla gola. Olanna, che per gli Igbo significa oro di Dio. E chissà se è bella, chissà quanti anni ha: “Diciotto”, giura. Impossibile capirlo, sono tutti uguali, neri, in questo buio. Olanna cammina con Sephora: “Ci siamo incontrate sul barcone”, raccontano. Quasi non si capiscono, si scambiano mozziconi di frasi in inglese, ma si tengono per mano. Non si mollano mai. Cadono e si sostengono. Sephora con la neve alle cosce che trascina un trolley.

Era la notte perfetta per tentare: le nuvole che si sono diradate e la luna piena a illuminare montagne d’argento. Si vede il sentiero, ma il terrore è essere visti. Ti sembra di sentire sotto le giacche il cuore di Olanna, Sephora, che batte all’impazzata. Che accelera quando dietro il crinale arriva una luce. No, è un’auto in lontananza. Dio – qualsiasi dio sia, ognuno qui ne prega uno diverso – che paura!

In testa alla comitiva c’è Fabien, coda di cavallo, occhiali: “Io lotto contro i confini”, racconta, “Di giorno monto antenne tv, lavoro in una cittadina a cento chilometri da qui”. Di notte lascia i due figli a casa e corre su per i monti ad aiutare i migranti. A rischiare la galera.

Sephora cade, con le mani protegge il trolley. C’è un abito coloratissimo: “Me lo ha dato mio padre… per il matrimonio”. Ma cosa speri di trovare? “Avevo nove fratelli, sei sono morti. In Francia ho dei parenti, almeno è una vita”.

“Venez, venez”, urla sottovoce Fabien.

Cos’è questo rumore? Una motoslitta sale dalla valle. Forse la Gendarmerie che, raccontano a Claviere, passa il confine senza timore. Silenzio. Il faro punta qui. La motoslitta sale, sfiora il gruppo. Sono due ragazzi con una bottiglia che vanno al rifugio.

Il cuore di tutti riprende a battere. “Allez, allez”, cammini, corri, cadi. Trovi il sentiero, lo perdi ancora.

Fabien si ferma. Guarda. Fa un gesto con la mano: venite qui. Vicini. Uno accanto all’altro, senti il respiro. Poi quelle parole: “Siete in Francia”.

Troppo buio, non riesci a vedere il volto nero di Olanna, la sua espressione. Soltanto le lacrime gelate che luccicano.

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