Il processo

Trattativa, il pm Di Matteo: “Scalfaro non era un arbitro. Mentì su Scotti e il patto Stato – mafia”

Stato-mafia - Il pm Di Matteo racconta “falsità e reticenze” dell’ex capo dello Stato. E ricorda quando Riina disse che Berlusconi “lo cercava”

12 Gennaio 2018

Scalfaro ha mentito sul suo ruolo nella trattativa tra Stato e mafia. Lo ha detto ieri il pm Antonino Di Matteo durante la requisitoria del processo per “violenza o minaccia a corpo politico” che si sta tenendo a Palermo. Ieri nell’aula bunker dell’Ucciardone, lo Stato di oggi, rappresentato dai pm Antonino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, ha messo di fatto alla sbarra lo Stato di ieri.

La cronaca dell’udienza è rimasta confinata sull’edizione locale dei siti dei grandi giornali. Nonostante nel corso della requisitoria il pm Di Matteo abbia toccato temi delicatissimi. Come le intercettazioni di Totò Riina che nel 2013 parla in carcere così con il suo compagno di detenzione di Silvio Berlusconi: “Per incontrarmi mi cercava”. Parole che per il pm sono sincere perché “noi siamo sicuri che Riina non sapeva di essere intercettato”. C’erano pochi giornalisti ma a sottolineare l’importanza del processo c’erano i ragazzi del liceo classico Umberto I di Palermo. Seduti nelle tribune riservate al pubblico, hanno ascoltato in silenzio la lezione di storia del pm. Non capita tutti i giorni un capo dello Stato accusato di mendacio, ancorché in carica un quarto di secolo fa. Se non fosse morto nel 2012, Oscar Luigi Scalfaro, sarebbe alla sbarra insieme all’ex ministro dell’interno Nicola Mancino per false dichiarazioni al pm.

“Subito dopo la strage di Capaci (con la morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, ndr) sull’onda emotiva di quell’attentato venne eletto presidente Scalfaro. Quel Presidente non si è certo limitato al ruolo di arbitro – ha proseguito Di Matteo – ma è stato il principale attore in vicende che hanno segnato snodi essenziali del dialogo sotterraneo tra lo Stato e la mafia: la nomina del nuovo ministro dell’interno (Nicola Mancino nel 1992 al posto di Vincenzo Scotti, ndr); la nomina nel febbraio 1993 di un nuovo ministro della Giustizia, Giovanni Conso (protagonista del primo allentamento sul fronte carcerario, al posto di Claudio Martelli, ndr) l’avvicendamento ai vertice del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria di Nicolò Amato con Adalberto Capriotti”. Per il pm, nel 1992-’93 lo Stato avrebbe ceduto all’offensiva stragista mafiosa sostituendo i responsabili della linea dura. E Scalfaro sarebbe stato il regista della svolta, negata poi 18 anni dopo con i pm.

In particolare, ha proseguito ieri Di Matteo “dobbiamo esaminare il comportamento di Scalfaro nell’avvicendamento Scotti-Mancino”. E in questo quadro ha stigmatizzato: “l’evidente reticenza e falsità delle dichiarazioni che l’ex presidente della Repubblica Scalfaro ha reso alla procura di Palermo il 15 dicembre del 2010”. Di Matteo ha proseguito: “Scalfaro dichiarò di non sapere nulla dell’avvicendamento al vertice del Dap tra Nicolò Amato e Adalberto Capriotti”. Dopo aver ricordato le parole dell’ex presidente (“nessuno mi mise al corrente delle motivazioni… Anzi non ho alcun ricordo della persona del dottor Amato … nulla l’allora capo della Polizia Parisi ebbe a dirmi della trattativa tra Stato e mafia né sulla connessione tra l’applicazione del regime penitenziario del 41 bis e gli episodi stragisti del 1993”) Di Matteo ha spiegato: “Noi acquisimmo solo dopo le prove del mendacio di Scalfaro”.

Dopo vennero le dichiarazioni di monsignor Fabbri (segretario del capo dei cappellani carcerari, Ndr), le dichiarazioni di Gaetano Gifuni”, allora segretario generale del Quirinale. Di Matteo ieri ha citato anche Giorgio Napolitano per smentire Scalfaro: “Come non valutare il contrasto netto tra queste dichiarazioni e quelle rese dal presidente Napolitano nel 2014 quando ha riferito che nei discorsi tra le alte cariche dello Stato subito dopo gli attentati del 1993 di Roma, Firenze e Milano, era chiara la convinzione che quele bombe rispondessero a una logica di ricatto dell’ala corleonese di Cosa Nostra finalizzato a migliorare la condizione del carcerario?”. Secondo il pm, “la condizione essenziale per portare avanti il dialogo con la mafia era quella di cacciare Scotti dal Viminale”.

Altri politici, come Paolo Cirino Pomicino, (con una testimonianza che, per Di Matteo, andrebbe valutata dai giudici sotto il profilo di una possibile falsità) hanno dichiarato che Scotti fu sostituito per la previsione dell’incompatibilità tra il posto di ministro e quello di deputato mentre lui pretendeva di fare il ministro mantenendo l’immunità parlamentare.

Per smentire questa tesi, Di Matteo ha citato un’intervista di Scotti a Giuseppe D’Avanzo del 1992 e poi le dichiarazioni rese al processo Trattativa dalla giornalista del Fatto, Sandra Amurri, su un incontro a cui aveva assistito casualmente il 21 dicembre del 2011 in un bar di Roma. La giornalista del Fatto ha raccontato ai pm di avere sentito quel giorno l’ex ministro Dc Calogero Mannino che diceva all’ex onorevole Dc Giuseppe Gargani: devi parlare con De Mita, perché stavolta i pm di Palermo “ci fottono”. Per Di Matteo le dichiarazioni di Sandra Amurri “sono di rilevanza fondamentale”. Mannino – per il pm – era preoccupato e chiedeva a Gargani di andare da De Mita per dirgli di offrire ai pm di Palermo la versione che Scotti era stato sostituito per l’incompatibilità.

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