Un filo rosso Stasi unisce i casi Orlandi e Gregori

Posa sul tavolino del bar il suo manoscritto, 44 pagine protette da una cartellina celeste, che lascia intravvedere il titolo: Mirella, Emanuela: stessa matrice. Poi, con un lampo di indignazione negli occhi, che le linee del volto addolciscono in amarezza profonda, esclama: “Si sono spesi invano più di trent’anni, senza andare alla radice della vera scomparsa delle due ragazze. Ci si è trastullati con la bufala della banda della Magliana. Una storia insulsa, una vergogna. Alla base di tutto c’è la Stasi, che era l’ultrapotente organizzazione di sicurezza e spionaggio della Germania Est. Si potevano approfondire molti e rilevanti indizi, e non lo si è fatto. Decisamente una brutta pagina per la giustizia italiana”.
Chi parla è Ilario Martella, che fu giudice istruttore nel processo contro l’attentato a papa Giovanni Paolo II, quei tre spari in Piazza San Pietro del 13 maggio 1981 su cui scrisse anche un libro, e che oggi, a riposo, è presidente aggiunto onorario della Corte di Cassazione. È proprio dall’attentato a Wojtyla che dobbiamo partire, anche se il rapimento delle due ragazze è di due anni dopo: per Mirella Gregori il 7 maggio del 1983 e per Emanuela Orlandi il 22 giugno (l’anniversario numero 34 cade dunque fra tre giorni).
La Bulgaria è molto preoccupata per l’arresto del concittadino Sergei Antonov, ritenuto complice di Ali Agca nell’attentato al Papa. Antonov, rappresentante della Balkan Air, è chiaramente un uomo dei servizi segreti bulgari, e si teme che possa fare chissà quali rivelazioni. D’altra parte, tutto l’apparato del blocco comunista prova imbarazzo per l’attentato a quel Papa polacco percepito come pericoloso, che aveva avuto l’ardire di presentarsi al mondo con l’invocazione “Non abbiate paura”, alla sua prima liturgia domenicale. E così la Bulgaria chiede aiuto alla Ddr.
Lo fa, con prove documentali, fin dall’agosto del 1982 (anche se Antonov sarà arrestato solo a novembre) e, più formalmente, con la lettera che il ministro dell’Interno, Dimitar Stojanov, scrive il 9 febbraio del 1983 a Erik Mielke, ministro e direttore della Stasi, che poi è l’abbreviazione di Ministerium fur Staatssicherheit, ministero per la Sicurezza dello Stato: un colosso con oltre 100 mila informatori, con una densità di spionaggio superiore a quella di ogni altro paese, Unione Sovietica compresa. Chiede, il ministro, che si distolga con tutti i mezzi possibili l’attenzione dal caso Antonov. E la Stasi si mette in moto: coinvolge nell’attentato la Cia e cerca di porre al centro Ali Agca, ma intanto manda lettere minatorie in tedesco allo stesso giudice Martella, attraverso l’Ansa, Il Messaggero, l’ambasciata d’Italia a Bonn: o interrompe il procedimento contro Antonov o ci andranno di mezzo la sua vita e quella di sua figlia Annalisa. Dopo la caduta del muro, si aprono gli archivi segreti. Passano altri 8 anni e sarà il giudice Rosario Priore a raccogliere, nel 1997 a Berlino, le dichiarazioni dell’agente Stasi Gunther Bohnsack, che ammette che tutte quelle lettere erano opera della sua organizzazione.
L’obiettivo di liberare Antonov, però, è stato mancato. Ed ecco allora i due sequestri. Il primo, della povera Mirella Gregori, figlia di gestori di un bar, non ha un gran successo mediatico. E perciò falliscono il risultato anche le telefonate alla famiglia. Ci sarà un’impennata solo quando la Stasi chiederà una presa di posizione del presidente della Repubblica Sandro Pertini, che giungerà. Ma ha un effetto deflagrante il secondo sequestro, dell’altra quindicenne Emanuela Orlandi, il 22 giugno del 1983, figlia di un commesso del Vaticano.
La adesca un sedicente rappresentante della casa di cosmetici Avon, all’uscita della scuola di musica dove suonava il flauto, con una proposta di lavoro da 375 mila lire. Lei chiama casa, chiedendo il permesso di accettare l’offerta. Risponde sua sorella, che le dice di aspettare il ritorno della madre. Sarà questo l’ultimo colloquio di Emanuela con la famiglia. Lei andrà all’appuntamento con quell’uomo. L’amica Raffaella la saluterà alle 19:20, alla fermata della linea 70, in Corso Rinascimento.
La Stasi dispone in campo tutti i suoi burattini. Dalle telefonate di tal Pierluigi, che fa intendere di averla vista a Campo de’ Fiori, a quelle dell’anonimo interlocutore con accento anglosassone che offre Emanuela in cambio della liberazione di Ali Agca, alla foto della ragazza fatta trovare in un cestino di piazza del Parlamento. Siamo al 6 di luglio e lei e Mirella, probabilmente, sono già morte. Troppo pericoloso tenerle in vita. Ne è convinto il giudice Martella. La soppressione dava “mano libera” a tutto “il complesso casting operativo, adeguatamente addestrato” per attuare una potente azione di depistaggio, “con il fine ultimo di conseguire la distrazione di massa dal caso Antonov”.
Che i due rapimenti abbiano la stessa regia, lo dimostra la grafia di una lettera inviata alla madre di Mirella l’8 settembre 1983, identica a quella del manoscritto rinvenuto in un furgone Rai, che faceva però riferimento a Emanuela. C’è poi una lettera pervenuta a Richard Roth, giornalista della rete Usa Cbs che mette in stretto rapporto Mirella, Emanuela e l’obiettivo di liberare Ali Agca (su Antonov, invece, volutamente silenzio).
Nei documenti di Berlino della Stasi, tuttavia, non si fa riferimento alle due ragazze. “E come si potrebbe trovare traccia scritta di una simile azione criminale? – chiede Martella – Nel corso della missione svolta a Berlino nell’aprile 1997 dal giudice Priore, è stato trovato un documento in russo, classificato come segretissimo, in cui il ministro bulgaro Stojanov ringrazia Mielke per l’appoggio accordato in “oltre quattro anni”, e per i “provvedimenti” che sono stati presi. Fra questi è impossibile non includere il rapimento delle due ragazze”.
Quattro anni sono il periodo di tempo che passa tra l’arresto di Antonov e la sua assoluzione (con Ali Agca) per insufficienza di prove, il 29 giugno del 1986. La convinzione che dietro tutto ci fosse la Stasi, Ilario Martella l’aveva già espressa pubblicamente a giugno di quattro anni fa. “Ma non è servito a nulla. Il 19 ottobre del 2015 il Gip di Roma ha archiviato i procedimenti contro la Banda della Magliana, mandando così in soffitta l’intera vicenda di Mirella ed Emanuela. I due casi, tuttavia, dovrebbero ritenersi tuttora aperti. Lo richiedono gli elementi di fatto che ho richiamato. C’è un iter investigativo fino ad oggi totalmente ignorato, che invece va percorso”.