Investitore estero

Alitalia, carburante a prezzi fuori mercato e tagli a stipendi già al livello di Easyjet: così Etihad ha dato il colpo di grazia

Tre anni per fare peggio di prima. Salutati come salvatori dopo la gestione pubblica e quella dei capitani coraggiosi, gli arabi sono riusciti a perdere un miliardo

26 Aprile 2017

C’è un ennesimo errore capitale che i protagonisti dell’orribile vicenda Alitalia non dovrebbero aggiungere alla catena di castronerie compiute in questi anni. Che è davvero lunga: dai leasing degli aerei ottenuti a prezzi da amatori al carburante pagato almeno 20 dollari in più alla tonnellata. Vista però l’ingordigia con cui si sono tuffati sugli sbagli, c’è purtroppo da temere che ci ricaschino. L’errore che non dovrebbero compiere azionisti (Etihad, Unicredit e Banca Intesa) e manager è quello di considerare il referendum come la pietra tombale sull’Alitalia, senza tentare nuove e possibili soluzioni, magari con il coinvolgimento del governo che fino ad ora anche su questa vicenda non ha fatto una bella figura. L’obiettivo comune dovrebbe essere quello di salvare un’azienda che resta uno dei pochi asset del Paese e dà lavoro a 12mila persone.

Gli sbagli di questi anni sono davvero tanti e hanno tanti padri. A cominciare dalla scelta del cavaliere bianco che avrebbe dovuto salvare la compagnia: gli arabi di Etihad entrati nell’azionariato da padroni con il 49 per cento del capitale spendendo una cifra ridicola, appena 380 milioni di euro. Fu Luca Cordero di Montezemolo, allora presidente di Alitalia, a spendere il suo nome per quell’intesa. Che si è rivelata fallimentare. Gli arabi hanno scelto a loro volta manager australiani, James Hogan e Cramer Ball che si sono circondati di una serie di collaboratori per lo più stranieri, passati da un abbaglio all’altro.

Hanno puntato sulla trasformazione di Alitalia in una compagnia a 5 stelle proprio nel momento in cui il mercato andava da un’altra parte. Hanno maltrattato i sindacati creando fin da subito un clima di tensione. Sono arrivati perfino a scatenare uno sciopero generale a settembre dell’anno passato per una ridicola questione di viaggi gratis per i piloti. Hanno instaurato un clima di terrore licenziando a destra e a manca con motivazioni a volte più che pretestuose. Hanno preteso perfino di cambiare le divise alle hostess con abiti e colori di foggia discutibile, giudicati orrendi da chi li avrebbe dovuti indossare.

Con grande lungimiranza il presidente del Consiglio di allora, Matteo Renzi, aveva salutato con entusiasmo la nuova era araba di Alitalia sostenendo che anche in quel caso si sarebbe voltata pagina e che la compagnia, reduce da un decennio di fallimenti, sarebbe tornata a volare. Usciti di scena, anzi scappati a gambe levate, molti dei vecchi patrioti scesi in pista anni prima, ai tempi della privatizzazione voluta da Silvio Berlusconi, a tenere alta la bandiera nazionale erano rimaste due grandi banche: Unicredit e Banca Intesa. Che non avevano voce in capitolo nella gestione diretta non avendone le competenze e che per di più non volevano metterci i soldi considerando l’impresa ad altissimo rischio. Così hanno fatto, sperando che gli arabi di Etihad riuscissero a tirar fuori le castagne dal fuoco. E invece i nuovi padroni non ne hanno azzeccata una. Hanno soppresso la manutenzione che era un fiore all’occhiello della compagnia di Fiumicino, affidandola all’esterno con un aggravio di costi del 40 per cento. Negli anni in cui il carburante scendeva ai minimi storici, hanno trovato perfino il verso di pagarlo un occhio della testa: 70 dollari a tonnellata invece di 50, grazie a contratti di assicurazione che secondo il segretario della Uiltrasporti, Claudio Tarlazzi, hanno favorito le banche azioniste della compagnia. Solo questo giochetto in 2 anni ha aperto un buco di 200 milioni di euro nel bilancio di Alitalia. Quando le banche si sono accorte che il nuovo corso non portava da nessuna parte, era troppo tardi.

Da ultimo arabi e banche sono arrivati allo sbaglio al cubo: un piano industriale farlocco su cui hanno pretesero che votassero i 12mila lavoratori di Alitalia. Hanno sbagliato perfino l’impostazione del referendum pretendendo che i dipendenti si esprimessero su un preaccordo sindacale sul costo del lavoro che come tutti sanno all’Alitalia è ormai a livelli fisiologici, tra il 16 e il 17 per cento dei costi totali, in linea perfino con compagnie low cost come Easyjet. Poi hanno subordinato la ricapitalizzazione dell’azienda e quindi il futuro del piano industriale (che era aria fritta) all’esito del voto.

La prima reazione ufficiale degli azionisti Alitalia a nemmeno 24 ore dall’esito del referendum, negativo dal punto di vista dell’azienda, è stata quella di indire un consiglio di amministrazione per cantare il de profundis alla compagnia decidendo di non ricapitalizzarla e aprendo le porte al commissariamento. In realtà da un punto di vista strettamente economico la vittoria del no sposta veramente poco. Una cinquantina di milioni di euro l’anno che si sarebbero ottenuti con il taglio dell’8 per cento medio sul costo del lavoro del personale navigante, piloti e assistenti di volo. Sarebbe veramente sbalorditivo se ora la compagnia che perde circa 2 milioni al giorno, si autocondannasse alla scomparsa per 50 milioni di mancati risparmi in 12 mesi. Proprio in un momento in cui il traffico aereo mondiale è in uno stato di grazia e tutte le compagnie del mondo mediamente ben dirette guadagnano soldi a palate.

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