Se c’è un aspetto dei biopic che rimane sempre acceso come un vulcanico fuocherello, è questo: inseguire l’ardimentosa esistenza di un personaggio già conosciuto e la sua continua e meno conosciuta sfida con le pieghe cupe del destino. I bassi prima degli alti, oltre ogni retorica. La polvere prima della gloria, oltre ogni trucchetto narrativo.
Monsieur Aznavour, diretto da Mehdi Idir e Grand Corps Malade (popolarissimo cantante e poeta slam delle periferie parigine), è quella vibrazione primariamente negativa, quella curvatura sempre sull’angolo buio della biografia di Charles Aznavour, probabilmente il più grande cantautore francese del ventesimo secolo. Quello che fa male in Monsieur Aznavour sono le stilettate dell’incomprensione pubblica generale, la cattiveria della critica musicale (sempre sugli sconosciuti, raramente su chi è già potente) nei confronti di quell’omino armeno (“Sarebbe a dire?”) che, prima rifugiato e poi naturalizzato francese, imbraccia il suo quadernetto dei testi, graffia con la sua voce roca e travolge la canzone francese e mondiale a cavallo del dopoguerra sfidando l’immortalità.
Non che il film offra una struttura narrativamente e temporalmente originale: davanti agli occhi c’è la tradizionale ripartizione cronologica progressiva (infanzia, gioventù, vita adulta, maturità, vecchiaia), condita dal sempre eccellente comparto produttivo anni Quaranta/Cinquanta, trucco, scene e parrucco da cinema francese di medio livello (macchine d’epoca e divise naziste, per dire).
Quello che invece esce dall’ordinarietà in Monsieur Aznavour è la preziosa dilatazione quantitativa del tempo del racconto dedicato all’abisso in cui finisce Aznavour, quando negli anni Cinquanta, dopo una fulminante carriera nei jazz caffè canadesi con Pierre Roche, l’amicizia e il servizio tuttofare chez Edith Piaf (nonché qualche concerto d’apertura gentilmente concesso da La Môme), il piccoletto armeno cerca la sua strada in solitaria e sbatte contro il muro di gomma dell’indifferenza.
C’è una rabbia e una cocciutaggine che pare davvero quella di qualche rapper contemporaneo che, dai margini delle città, scala il paese. Una foga del desiderio di affermarsi che si fonde delicatamente in quel suo inconfondibile e travolgente tocco musicale, tra il romantico e il sentimentale.
Al centro del film di Idir/Grand Corps Malade c’è la celebre serata del dicembre 1960 all’Alhambra di Parigi. L’ultima sfida possibile con quel pubblico e quella stampa, perfino razzista (“il muezzin dalla voce cavernosa”), che non sopporta Aznavour, ormai già uscito con diverse hit. Sul palco di quella sala immensa, con orchestra, si esibisce in Je n’voyais pas, la storia di un artista mancato, di quel successo che non arriva mai. Cravattino slacciato, maniche di camicia da srotolare, giacca tenuta in mano. Quelle braccia che si muovono ampie, le mani che roteano. È la sera in cui Aznavour si afferma prima di tutto come uomo di palco e di spettacolo: lo showman che sente i seggiolini richiudersi, ma non per la fuga del pubblico bensì per una standing ovation.
Monsieur Aznavour è un monumento mite al mito clamoroso della Francia. Un ritratto rispettoso e generoso che vuole dimostrare il lato complesso, scivoloso e trascurato della fama. Tahar Rahim (Il profeta) è un Aznavour “straniero”, anticonvenzionale, marginale, tutto in sottrazione, con quel sopracciglio da sguardo aznavouriano ripreso spesso di tre quarti e di profilo, senza l’intento della mimetizzazione ma concentrato sull’evidenza dell’evocazione.
Solo perché in Italia (grazie a Movies Inspired) sfida le grandi corazzate natalizie (Zalone, Cameron), Monsieur Aznavour meriterebbe un bel regalo di pubblico.