In altri tempi – o forse solo con altri protagonisti – sarebbe esploso un caso nazionale. Le accuse lanciate da Fabrizio Corona nell’ultima puntata di “Falsissimo” contro Alfonso Signorini, durante la quale si è parlato di un presunto “metodo Signorini”, chiamano in causa meccanismi di potere, promesse di visibilità e rapporti ambigui con giovani aspiranti volti televisivi. Secondo quanto raccontato da Corona, il conduttore e co-autore del Grande Fratello Vip avrebbe avvicinato ragazzi eterosessuali prospettando loro un ingresso nel reality o spazio sul settimanale Chi, diretto da lui, in cambio di foto, video o incontri a sfondo sessuale. A sostegno delle denunce, vengono mostrate chat definite compromettenti.
Eppure, a fronte della gravità delle accuse, il caso è rimasto finora confinato ai margini del dibattito pubblico. Nessuna vera ondata di indignazione, poche prese di posizione, un’attenzione limitata da parte dei media tradizionali. Un silenzio che colpisce soprattutto se confrontato con altre vicende analoghe, nelle quali dinamiche di potere, sesso e visibilità hanno acceso reazioni immediate e trasversali. Perché qui no? E cosa ci dice questo vuoto sul modo in cui oggi leggiamo – o scegliamo di non leggere – certi rapporti di forza, soprattutto quando non rientrano nei copioni più classici?. Per provare a decifrare le ragioni di questa non-reazione abbiamo intervistato Giovanna Cosenza, docente di Semiotica all’Università di Bologna e blogger de ilfattoquotidiano.it.
Perché secondo lei, salvo rare eccezioni, non c’è stata una reazione nello spazio mediatico italiano?
Credo che il caso sia stato percepito come qualcosa di lontano. C’è una scarsa possibilità di identificazione: parliamo di due personaggi che appartengono pienamente al mondo del gossip e dei media. È un universo fatto di luci, spettacolo, lustrini, che molte persone sentono distante dalla propria vita quotidiana. Questo produce indifferenza e rende difficile che si attivi un coinvolgimento emotivo.
Quanto pesa il fatto che la notizia sia stata lanciata da Fabrizio Corona, con metodi discutibili?
Pesa molto. La vicenda nasce all’interno di un mondo in cui vero e falso si intrecciano e diventano quasi indecidibili. Il gossip è percepito come un ambito manipolato e pilotato, una guerra tutta interna a quel sistema. Questo incide sulla credibilità complessiva del racconto: il metodo è discusso, le fonti sono considerate dubbie e diventa difficile, per il pubblico, distinguere chi dice il vero e chi il falso.
Se i protagonisti fossero stati eterosessuali — o se ci fosse stata una donna in una posizione percepita come più vulnerabile — il trattamento mediatico sarebbe stato diverso?
In molti casi sì. Quando c’è una persona che appare chiaramente più debole o meno potente, soprattutto se è una donna, la disparità viene riconosciuta più facilmente. In condizioni più comuni, quando qualcuno con molto potere compie qualcosa di ingiusto o negativo nei confronti di chi ne ha meno, la notizia diventa trasversale e suscita indignazione. Qui invece la vicenda viene letta come una partita tra due soggetti sullo stesso livello.
In che modo stereotipi ancora diffusi sulle persone gay possono contribuire a minimizzare certe dinamiche?
Esiste l’idea implicita che tra uomini ci sia una sorta di simmetria di potere. Come se il genere maschile cancellasse automaticamente le asimmetrie. Questo stereotipo agisce a monte, nel modo in cui la vicenda viene immediatamente interpretata, e rende più difficile leggerla in termini di pressione o abuso, perché si tende a pensare che “se la giochino tra loro”.
Può esistere una forma di omofobia non esplicita, che non si manifesta nell’attacco ma nella rimozione o nel silenzio?
Sì, è possibile. La nostra è una società che conserva ancora tratti omofobi, così come è ancora misogina e patriarcale. L’omofobia non si manifesta solo attraverso l’aggressione diretta: può emergere anche come disinteresse, come mancata attenzione, come rimozione. Il silenzio è una forma potente di esclusione. Detto questo, nel caso specifico non possiamo affermare con certezza che il silenzio mediatico sia direttamente riconducibile a questo meccanismo.
Il fatto che si tratti di due uomini rende più difficile, culturalmente, leggere la vicenda attraverso categorie come abuso, asimmetria o pressione?
Sì, perché culturalmente siamo meno abituati a riconoscere la vulnerabilità maschile. Se entrambi i protagonisti sono uomini, e per di più personaggi pubblici, si tende a pensarli come entrambi forti, consapevoli, attrezzati. Questo immaginario rende più difficile vedere le dinamiche di potere che possono comunque esistere, e che non dipendono solo dal genere o dall’orientamento sessuale.
Qual è il rischio di questi silenzi ripetuti? Che messaggio arriva a chi subisce dinamiche simili ma non rientra nelle categorie “visibili” del dibattito?
Il rischio è che si trasmetta l’idea che alcune esperienze non meritino attenzione pubblica. Che se non rientri in uno schema riconoscibile — la vittima “giusta”, il colpevole “giusto” — allora quello che ti accade non è degno di essere discusso. È un messaggio molto pericoloso.
Questo tipo di casi contribuisce a costruire una gerarchia delle vittime considerate “degne” di attenzione pubblica?
Sì, ed è una prospettiva triste. Chiedersi se siano più discriminati le persone della comunità lgbtqia+ o le donne significa costruire una gerarchia delle vittime. La risposta, se esiste, dipende sempre dai casi concreti e dalle condizioni specifiche delle persone coinvolte. Ma il rischio è proprio quello di rendere invisibili alcune forme di sofferenza.
Cosa ci dice questa vicenda, più in generale, sullo stato del dibattito italiano su consenso, potere e sessualità?
Ci dice che il dibattito pubblico riesce a indignarsi solo quando riconosce schemi già noti. Quando le dinamiche diventano più ambigue, meno classificabili, meno rassicuranti, scatta il silenzio. È il segno di una discussione ancora in corso su consenso, potere e sessualità, soprattutto quando escono dai binari consueti.