Cinema

James Cameron prigioniero del suo mito, la magniloquenza vuota di Avatar 3 è ormai fuori mercato

Tra ripetizioni narrative, scrittura stanca e un immaginario ormai fuori tempo massimo, il terzo capitolo della saga conferma il progressivo deragliamento dell’universo di Pandora e sembra il vagone fantasma dell’intero franchise

di Davide Turrini
James Cameron prigioniero del suo mito, la magniloquenza vuota di Avatar 3 è ormai fuori mercato

Più la saga di Avatar va avanti, più la fama di James Cameron retrocede. Il franchise in cui “Pocahontas incontra i Puffi” si arricchisce di un terzo capitolo che sembra identico al secondo. Si sono messi in una mezza dozzina, compreso Cameron, a scrivere soggetto e sceneggiatura di Avatar 3: Fuoco e cenere, ma l’arco narrativo, i turning point, gli scontri generazionali, le minacce mortali, i colpi di scena sono ricalcati con la carta velina ad Avatar 2: Le vie dell’acqua (che irresistibile proprio non era). Non che il franchise più remunerativo della storia del cinema ci avesse mai fatto saltare sulla poltrona. L’abbiamo subito passivamente, un po’ come ogni tendenza estetica che ci annoia nella sua merceologica esaltazione, e che speriamo passi in fretta, per vedere se quella successiva ci apparterrà un poco di più.

Permetteteci un altro paio di righe sull’obsolescenza della poetica e della produzione cameroniana, poi torniamo allo scarso Avatar 3. Girato e visione spettatoriale in 3D, introdotti da Cameron con Avatar nel 2009, più che una risorsa innovativa del nuovo millennio cinematografico sono diventati subito come un fastidioso e inutile orpello, modello apparecchio per i denti. Per non dire dell’ulteriore peso economico per le già disastrate sale, che fin dal numero due della saga hanno fatto a gara per scansarlo come la peste. Già questo ci dovrebbe far capire come questa epica della motion capture, questa epopea spirituale new age con “grafica da screensaver” (il premio va sempre al villaggio Na’vi sul mare che sembra le isole Baleari), si appoggi su un’idea tecnico-stilistica oramai clamorosamente fuori mercato e non di certo richiesta dal pubblico a gran voce. È come se Cameron, a fine secolo, avesse avuto una visione e, mentre si è messo lì a svilupparla, tutto attorno a lui, a livello industriale, filosofico, tecnico, abbia cominciato improvvisamente ad accelerare, superandolo.

Se ci aggiungiamo Avatar 3, il deragliamento dell’intero progetto è servito. La struttura è da telefilm (primo scontro buoni-cattivi, secondo scontro, scontro finale), dilatata all’inverosimile con vagonate di sottotrame, da un lato infarcite di dialoghi goffi e superficiali (in italiano rileviamo alcuni “cazzo!” non proprio signorili in siffatto contesto naturalistico mistico), e dall’altro rimescolate di continuo senza mai lasciare sedimentare un carattere, una psicologia o anche solo, ci si permetta, un viso. I prodromi c’erano già in Avatar 2, dove in scena sul pianeta Pandora per ogni personaggio della famiglia Sully c’erano già due, tre doppioni (tribù con prole, Tulkun con prole, villain con prole) che ripetevano, tipo ombre cinesi, quello che faceva la matrice senza mai variare di un grammo sostanza e appeal.

Nell’episodio 3 (tre ore e diciassette, ricordarlo non guasta) entra in scena una scheggia cromatico-evocativa da Mad Max: Fury Road (vero exploit formale del nuovo secolo): il mefitico clan dei Mangkwan, capitanato dalla tsahik Varang (una vitalissima Oona Chaplin), che attenta con sanguinaria perfidia alla vita di tutti i Sully e di Spider (Jake Champion), alleandosi con il famigerato colonnello Quaritch (Stephen Lang) e infine con i marines per sterminare i Na’vi. Vi sembra Avatar 2, no? Infatti non si scappa. A così tanta magniloquenza compositiva fa il paio un comparto scrittura imbarazzante, al cui confronto P.T. Anderson con le sue cupe sottotrame castriste pare Dostoevskij.

Poi, per carità, l’ultimo blocco, l’ora dello scontro finale, con i motoscafi che partono in tromba per squartare i Tulkun, appunto già visto identico in Avatar 2, ha sempre la sua energia e fusione con l’empatica difesa ecologica degli esseri viventi incontaminati. Il problema è che, dati alcuni schemi fissi, non c’è mai una piccola variazione. Si pensi all’aiuto sovrastante della Gran Madre che, bene o male, torna con lo stesso timing e le stesse prerogative totalizzanti, o a come si spargano distrattamente briciole sul concetto di endosimbionte, tratto sicuramente dalle riflessioni di Donna Haraway, qui organismo che si infila nel corpo di Spider per farlo respirare senza maschera su Pandora.

Per questo Avatar 3 sembra il vagone fantasma dell’intero franchise, qualcosa di fatto finire sul binario morto della ripetitività per tirare avanti la serie in attesa di un reboot anche solo di scaramantica rinascita. Si racconta che Avatar 4 sarà un flashback temporale per rimescolare un po’ le carte. Ovvio che ce ne sia bisogno. Ma il rischio è che, nell’attesa, i già mosci Na’vi, con tutti i loro antagonisti da fumetto, finiscano definitivamente inabissati nel porto delle nebbie del defunto 3D.

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